venerdì, Marzo 29, 2024

Bronson di Nicholas Winding Refn (G.b. 2008)

“Mi chiamo Charlie Bronson, e per tutta la vita ho voluto essere famoso”. In una luce teatrale netta si staglia il mezzo busto di un uomo con due mustacchi eccessivi e uno sguardo glaciale. Stacco, soggettiva del protagonista sulla platea. Bronson è un uomo che ha fatto della violenza il proprio leitmotiv e che (qui sta l’originalità del tema) della violenza si serve non per fare del male, e neanche per divertimento (come in Arancia Meccanica, riferimento evidente ma non troppo), bensì per il successo. Raggiungere la celebrità inseguendo le proprie inclinazioni (in questo caso, malmenare il prossimo), cercando con testardaggine di superare ogni ostacolo: Bronson è la scheggia impazzita dell’ideologia capitalistica occidentale, che opera all’interno di tale ideologia come un cromosoma difettoso, e usa le armi del sistema (lo sfruttamento dell’altro a fini personalistici) per mostrare i limiti di tale sistema. Ciò che rende inquietante il personaggio di Bronson è la compresenza tra la sua estraneità e la sua vicinanza all’occhio giudicante: in questo senso, il campo-controcampo a 180° della scena iniziale, perfettamente simmetrico, sublima visivamente questo scontro-incontro delle due prospettive: quella sociale e quella del protagonista. Tutto il film è uno scontro tra Bronson e “gli altri”, uno scontro fisico ma anche (e soprattutto) visivo. Talvolta la regia di Refn fa prevalere lo sguardo sulla società: nelle bellissime carrellate all’istituto psichiatrico, o nella discoteca in cui i degenti di tale istituto ballano It’s a Sin dei Pet Shop Boys (geniale messa in abisso della storia del protagonista che, nella sua devianza, si fa entertainment); altre volte, Bronson diventa l’assoluto protagonista della scena, e qui la recitazione istrionica di Tom Hardy, in linea con il film e con il personaggio, non lascia spazio a sfumature. Questo contrasto continuo esploderà nella disturbante scena finale, che nella sintesi visiva di una gabbia claustrofobica costruita su misura intorno al corpo insaziabile del protagonista porta il contrasto protagonista-società ad un parossismo bestiale. Prova inconsapevole della “vittoria” del vero Charlie Bronson (il film alla fine non fa altro che assecondare la sua voglia di fama), Bronson arriva in Italia tre anni dopo la sua uscita, forse sull’onda del premio alla migliore regia conferito a Refn all’ultimo festival di Cannes per Drive. Nicholas Winding Refn (leggi la recensione su Valhalla Rising)  danese, è un regista di cui sentiremo parlare: immagini sature, geometriche, perfette, in bilico tra un manierismo mai troppo ostentato, un grottesco proporzionato al tema trattato e una forte tendenza alla stilizzazione, degli ambienti come dei personaggi (basti vedere i tableaux vivants del prefinale). La storia è raccontata in modo ragionato ma secco, in modo un po’ grandguignolesco, senza psicanalisi, senza denuncia sociale, senza critiche al sistema carcerario. È un cinema che come coordinate stilistiche privilegiate mette insieme il cinema di Todd Solondz, Kenneth Anger e il già citato Kubrick, dal quale mutua le rigidi e sature geometrie e qualcosina a livello contenutistico (lo sguardo non giudicante sul protagonista, l’impotenza della società di fronte a individui inutilmente violenti). Il sorriso sardonico del protagonista ben interpreta lo spirito di un film che lascia stupefatti, mette in discussione l’intero apparato sociale mostrando l’impossibilità di recupero di una scheggia impazzita, di una persona malata la cui perversa lucidità, tuttavia, è capace di mettere in discussione il concetto di funzione rieducativa del carcere (dall’illuminismo in poi, uno dei capisaldi del pensiero occidentale). Bronson ha una moralità, non concepisce l’omicidio ed è capace di pietà, oltre ad avere una verve artistica stupefacente. Eppure, ogni tentativo di recupero in tal senso cade nel vuoto: l’arte del film sta tutta nella violenza, e la violenza del film, come del protagonista, si fa (letteralmente) opera d’arte, ma in modo immorale e illecito. Perché Bronson agisca così, non ci è dato saperlo. Saper ricondurre la necessità di violenza a un fine e NON a una causa: questo sembra  il nocciolo drammatico di molto cinema contemporaneo, e qualcosa vorrà dire.
 

 

Raffaele Pavoni
Raffaele Pavoni
Raffaele Pavoni (Piombino - LI, 15/04/1987) si è laureato in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo nel 2008, e ha ottenuto il diploma CESCOT di Tecnico Qualificato Documentarista nel 2009. Ha all'attivo documentari, cortometraggi, clip promozionali, collaborazioni con emittenti televisive e studi fotografici, partecipazioni a festival. Ha collaborato e collabora per varie testate web. Vive e lavora a Firenze.

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