Amiche di Sangue di Cory Finley: la recensione in anteprima

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Sono lontani i tempi di “Creature del Cielo”, di “Fun”, il film diretto da Rafal Zielinski, ma anche quelli delle “Schegge di Follia” fatte esplodere dall’allora esordiente Michael Lehmann a cavallo tra il penultimo e l’ultimo decennio del novecento.

L’esordio alla regia dell’autore teatrale Cory Finley proviene dritto da una sua piece e prende le mosse da alcuni presupposti che attraversavano il cinema “generazionale” degli anni novanta, mettendo in scena la relazione morbosa tra due adolescenti. Amanda (Olivia Cooke) e Lily (Anya Taylor-Joy) un tempo sono state compagne di studi, ma da quando la prima ha compiuto un gesto estremo, uccidendo il proprio cavallo, qualcosa è cambiato. 

Lily vive dentro un’enorme villa nel Connecticut e riceve negli interni hi-tech Amanda per alcuni pomeriggi di studio. A spingere Lily a tanta generosità è uno strano attaccamento all’apatia anaffettiva della ragazza, ma anche i soldi che la madre della compagna le allunga “sottobanco” perché passino insieme alcune ore.  Amanda ne è a conoscenza e informa gli spettatori all’inizio del film, rivelando di aver curiosato tra le mail che la madre e Lily si sono scambiate.

Finley ci introduce nelle stanze della villa attraverso lo sguardo di Amanda che tocca gli oggetti e le reliquie dell’abitazione prima che Lily entri in scena a dare un senso a quei luoghi;  tra le cose, una grande katana sospesa ad una parete, imposta una tensione impalbabile che il regista statunitense cercherà di mantenere lungo tutto il film, con la strategia del racconto in medias res. Mistero interrotto da un attaccamento tutto teatrale alla parola, ma quella parola che invece di evocare, amplificare o contraddire il gesto, lo neutralizza a causa dell’impermeabilità tra i due livelli, quello del detto e del vis(su)to.

Finley sembra interessato alla superfice delle cose e alle dinamiche che congelano i gesti di una certa upper class entro una cornice insistentemente iperbarica.  Ambienti asettici, uno stato sociale che mette al centro il benessere della persona come status e la distanza tra il mondo delle due adolescenti e quello degli adulti. Se per Lily il padre e la madre sono figure totalmente assenti, la pressione genitoriale per Amanda è esercitata dalla madre e dal patrigno, quest’ultimo soggetto delle discussioni tra le due ragazze e soprattutto, ostacolo da rimuovere con la messa in scena di un ipotetico omicidio. 

Il film procede con l’azzeramento di tutti i climax possibili attraverso l’amplificazione del vuoto. Non si tratta di un vuoto ricercato o semplicemente trovato tra le cose e le parole, perché tutto viene esposto in evidenza, a partire da un’insistita estetica “cubista” accentuata dalla colonna sonora minimale e tribale dell’ottimo Erik Friedlander. Ma non è sufficiente applicare due livelli per stratificare. In questo caso le poliritmie tra voce ed elettronica del musicista newyorchese si conciliano con le immagini senza arricchirle. Finley non punta quindi alla profondità e alla dimensione incerta del punto di vista, allestendo un insopportabile teatrino chiarissimo nei suoi intenti e non abbastanza coraggioso da scegliere una deriva ultrapop, oppure il disinnesco di quel compiacimento estetico che regge in piedi tutto il film.

Si comincia a intravedere vita quando Anton Yelchin compare in una delle sue ultime interpretazioni prima del tragico incidente che lo ha ucciso. Figura sofferente e borderline, l’unica in grado di introdurre una malsana instabilità psichica rispetto alla crudeltà chirurgica di Amanda e alla scansione immutabile nella vita viziata dal lusso di Lily. 

Acclamato quasi all’unanimità dalla stampa statunitense, Thoroughbreds è un prodotto “Sundance” nella peggiore accezione. Alla ricerca di un’autorialità insistita in ogni immagine, ogni taglio, ogni segno evidenziato, come la grande scacchiera di marmo che “significa” a tutti i costi durante una conversazione tra le due ragazze, ci sembra che accolga tutte le istanze più deleterie del cinema europeo confezionato per i festival ed esportato negli states, segno dei danni causati da un autore come Yorgos Lanthimos. 

L’anticlimax del delitto, con tutti gli elementi del noir, incluso l’uso del roipnol per simulare uno shock mnestico, ha la supponenza di minare il racconto classico soffocando anche la flagranza emotiva di due attrici eccellenti. Impossibile vederle in vita, il loro autore conosce già tutto in anticipo.