giovedì, Aprile 25, 2024

Nicolas Roeg – Un film contro un altro, un testo contro l’altro

Il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: così come l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo […….] Quel fanciullo o quella immagine proiettata dalla mia nostalgia? Così immobile laggiù: come il mio cadavere

Dino Campana “La verna” – Canti Orfici, pag 149, Vallecchi, Firenze – 1985

Sobrietà e delirio. Due polarità estreme sin troppo facili da chiamare in causa quando si parla del cinema di Nicolas Roeg; eppure, nel rischio di rappresentarne la tomba, sono gli elementi che meglio di altri raccontano la discontinuità di un Cineasta che non permette mediazioni, anche quando lo si affronta a partire dalle sue opere apparentemente più brutte o semplicemente appiattite dalle condizioni produttive.

Non è paradossale che in un film come Puffball, l’ultima produzione di Roeg ad esser stata distribuita e realizzata all’età di 80 anni, la creatività di un regista genuinamente anarchico e visionario emerga ancora in modo fastidioso ed urticante proprio da quell’impianto televisivo che ne vanificherebbe la forza in una confezione normativa e funzionale. Puffball è al contrario una sconcertante discesa negli inferi della coppia in grado di guardare la morte del cinema per come vorremmo ricordarcelo, smembrandolo attraverso uno specchio puntato sulla freddezza dell’immagine contemporanea; non certo l’ormai consueta pervasività della quadratura video-televisiva, orizzonte negativo entro il quale Roeg si fa apparentemente assorbire, quanto la moltiplicazione di uno sguardo analitico, la ricerca dell’invisibile attraverso la pornografia dell’amniocentesi e la violenza della radioscopia, immagini così estreme tanto da rendere obbligatorio un confronto con un film al contrario magistralmente fotografato in superficie e sostanzialmente innocuo come Antichrist di Von Trier.

Noioso-ipnotico, pretenzioso-visonario; altri binomi opposti che non concedono spazio alla neutralità, il Cinema di Nicolas Roeg si sviluppa in piena “guerra” post-moderna, stimolando un dibattito teorico che per ovvie ragioni ha lasciato fuori il nostro paese e che in un certo senso ha sancito l’insuccesso, anche analitico, di un regista meno “scolasticamente” accattivante e per certi versi meno digeribile di Stanley Kubrick, ma altrettanto influente su intere generazioni di cineasti per quella che potremmo definire come l’evoluzione cognitiva di tempo e racconto.

La definizione di memoria che si desume dagli studi di Greenberg – Gabbards contenuti anche all’interno della loro Reel Collection: Notes on the cinematic depiction of memory, mette in luce un doppio movimento del Cinema nel riflettere la ricerca di una collocazione centrale da parte dello spettatore attraverso l’archivio della memoria, cosi come la sua dissoluzione nell’estrema fragilità dell’atto organizzativo, ovvero la terribile semplicità con cui è possibile alterare i ricordi mediante il salto, il taglio e la falsificazione. Connessione e al contrario filtro che ci divide dal mondo; quello che conosciamo attraverso il cinema è un incessante campionatura e segmentazione della realtà, paradossale “verità governata” che attraversa la collisione dei “mondi” nel cinema di Nicolas Roeg, da sempre ossessionato dalla perdita del controllo, dai puzzle che non trovano soluzione, dai quanti di luce e dai tasselli mancanti invece che dal disegno complessivo, elementi che lo identificano come autore attualissimo in quel processo di riconfigurazione dell’autorialità che introduce e supera la deriva post-moderna : “Regista? Forse è un ottimo nome per un lavoro; offre l’idea di qualcuno in grado di orientare e comandare persone e realtà, ma il meglio che poi si possa fare alla fine è solamente un trucco. Qual’è la miglior inquadratura, quella “corretta”? Qualsiasi visione è una visione; è molto difficile scendere a patti con questo fattore casuale, io ci provo ed è davvero strano vedere come al contrario, le persone amino interferire con le cose; è molto facile essere ingannati se un film ha un bell’aspetto” ( Nicolas Roeg, Intervista contenuta in: Joseph Lanza – “Fragile Geometry”, pag 139, Paj Publications – NY, 1989 ) ; ecco perchè qualsiasi tentativo di ridurre il passaggio di Nicolas Roeg e del suo Cinema ad una prospettiva esclusivamente inglese, può essere praticato al prezzo di seguire una traccia negativa. Percorso che non si limita ad un flagrante contrasto con la tradizione del cinema britannico classico, ma si estende a un rapporto del tutto eretico con l’eredità del Free-cinema.

La logica è quella visionaria e può includere certamente Michael Powell, John Boorman, col quale Roeg condivide molte idee sul tempo e lo spazio, i tratti più marginali dell’immaginario Hammer, più di un punto di contatto con lo sfortunato Michael Reeves e con il taglio americano di Carol Reed, uno dei registi più amati e probabilmente citati da Roeg stesso, ma anche Corman, Ulmer, Ed Wood nell’identificazione della discrepanza, del difetto percettivo, della strana illusione. Frammenti di un cinema che affonda le radici nel passato e nella prospettiva futura di una lenta disintegrazione del genere dove l’uso dello scambio e della manipolazione continua del linguaggio punta in modo radicale sulla differenza e sulla collisione, facendo in modo che il dispositivo si disintegri.
I film di Roeg contribuiscono molto spesso a creare un effetto di vertigine, l’inserimento di osservatori di cui non sappiamo e non sapremo niente, la moltiplicazione del punto di vista, la concentrazione di tutto il visibile nelle sequenze introduttive, la riallocazione, la giustapposizione, lo s-montaggio; è in questo senso che il riferimento al Noir sembra una delle suggestioni più feconde per parlare del cinema di Roeg, non solo per un lavoro specifico sul genere ma anche per l’esplorazione di relazioni spesso opposte e paradossali tra loro; cecità e sguardo, indagare ed essere indagati, vedere ed essere visti.

In questa direzione il suo cinema precorre, anche tecnicamente, l’ipertrofia visiva del post-moderno contemporaneo o di quella che potremmo definire come una riproposizione ipertrofica dei relitti post-moderni; cinema sempre (s)bilanciato tra un’adesione incondizionata a meccanismi e codici e una distruzione degli stessi per accumulo . Simulacri inintellegibili che annullano i segni del linguaggio, vertigine digitale dove il segno è illeggibile, cieco, occhio come energia distruttiva, sguardi nel vuoto che finiscono per “creare una sorta di iperrealtà fantastica che non vive che di montaggio e di manipolazione testuale” ( J. Baudrillard “Lo scambio simbolico e la morte” Milano, Feltrinelli, 1990 ).

Nel cinema di Roeg l’osservazione di un cinema dentro il cinema, quella più banale e consueta, slitta dalla tirannia del doppio alla creazione di una visione infranta, spostando l’attenzione su procedimenti analitici puri.

I’ve a Grasshopper mind. It leaps about a bit….” (  “The man who fell on his feet”, Guardian, 22 Marzo, 1976:intervista con Nicolas Roeg )

Si può quindi parlare del cinema di Nicolas Roeg in termini cronologici come converrebbe ad un’analisi esaustiva? Ovvero, vale la regola di un percorso influenzato da se stesso, esaminato in termini evolutivi, tanto da farci cadere in quell’equivoco che distingue quasi sempre la verginità creativa degli esordi da un appiattimento sulle strategie produttive del presente?

Si leggono spesso sciocchezze sulla diversità tra medium e media, riproposte come la scoperta dell’acqua calda “ La stampa è diversa dal web!” oppure “la brevità è del web” e cosi via. Grazie tante. In questa sede, più di queste banalità ci interessa giocare (bene o male ha poca importanza) con il “mezzo” e sperimentare un’idea possibile di permeabilità; sia essa costituita da brevi frammenti o da escursioni magmatiche siamo d’accordo con Carla Mancini ( Carla Mancini, “From Cinematographic to Hypertext Narrative”. In Hypertext 2000, San Antonio, TX  – ACM Press: New York, pp. 236-237 ) quando rileva analogie feconde tra i codici cinematici della rappresentazione e il modo in cui le informazioni sono presentate in ambito ipertestuale; ovvero l’idea di una struttura diacronica sviluppata in modo sincronico; non si tratta semplicemente del montaggio, di cui sfortunatamente sopravvive un’idea temporale e teleologica, ma del modo in cui una serie di concetti possano sfruttare elementi non linguistici attraverso la simultaneità e l’analogia visiva

Se pensiamo all’idea di Eisenstein di considerare le inquadrature non come semplici inquadrature e il montaggio non come la semplice connessione di parti separate, ma come un sistema costituito da tutti questi elementi in grado di creare un elemento altro, un “fuori campo” dinamico, dialettico, generato dalla collisione, dovremmo avere un’idea non distante da quello che potrebbe essere un gioco ipertestuale finalmente “militante” e attivo. Un modo per rivedere la dipendenza dal contenuto e dalla nostra idea di struttura in termini di connessione, processo, evento.

Il Cinema di Nicolas Roeg è tra quelli che si presta meglio di altri ad una “distruzione” interna che sia anche ri-creazione, un sistema ricchissimo di connessioni e ri-connessioni che ci permettano di seguire una lettura simultanea e di avvicinarsi alle immagini di uno dei maggiori cineasti ancora viventi, cambiando le risorse di volta in volta ( Continua….?)

Mi ricordo che a new York, di fronte a casa nostra dall’altra parte del parco c’era una vecchia casa molto bella, aristocratica….intorno c’erano altre case, dell’inizio del secolo. Una ad una le buttarono giù e al loro posto sorsero delle mostruosità, ma quella che mi piaceva era rimasta, era sempre li….di notte, da ragazzo, quando attraversavo il parco, mi serviva ad orientarmi. Anni dopo quando presi la laurea, e cominciai a insegnare, era ancora li. Un martedi me ne andai a Boston, il Venerdi quando tornai, era sparita, andata, in un istante (Art Garfunkel in “Bad Timing”)

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi

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