venerdì, Aprile 19, 2024

Buried – sepolto di Rodrigo Cortés (Spagna, 2010)

Dall’altrove buio di uno schermo nero giunge in sala il ritmo sincopato di una serie di gemiti d’angoscia. A distanza di alcuni secondi una fiamma traballante ci rivela il volto sconvolto e imbrattato di sangue del loro proprietario. Paul Conroy, autotrasportatore di stanza in Iraq come contractor per privati, si è appena reso conto di essere stato sotterrato in una cassa di legno, così come lo spettatore scopre di essere chiuso lì dentro insieme a lui. A tastoni, Paul è riuscito a recuperare un accendino e un cellulare impostato sulla lingua araba: li utilizzerà per trovare il modo di sfuggire ad una morte atroce, mentre il film di cui è protagonista li eleggerà a strumenti integranti dell’apparato di rappresentazione, fonti di luce per la fotografia e veri e propri motori della trama, insieme al corpo di Ryan Reynolds, impegnato in una lodevole e credibile prova di immedesimazione. Buried è un contorsionistico esercizio di cinema di genere, un thriller claustrofobico nella sua accezione più radicale, ma soprattutto un geniale spunto produttivo che porta in dote costi decisamente limitati, il selling point di una trovata estrema e la comodità di un ingegnoso vettore di product placement, dato che fa di alcuni oggetti di consumo i veri e propri coprotagonisti della vicenda. Geniale, ça va sans dire, se non si è così schizzinosi da rifiutare l’accezione più furbesca del termine. La sfida presupposta in un progetto del genere era quella rendere potabile e congeniale allo spettacolo la soffocante unità di luogo e l’estenuante, sostanziale, unità di tempo. il giovane regista spagnolo Rodrigo Cortès e il suo altrettanto giovane sceneggiatore Chris Sparling, hanno trovato il modo di uscire vivi, vegeti e vincitori dalla cassa in cui si erano infilati, portando a casa il risultato usando parecchio mestiere (cosa notevole per due semiesordienti) e diverse forzature. Ma poco importa: Buried, in un modo o nell’altro funziona. Il ritmo si mantiene sorprendentemente alto per tutti i novanta minuti, cadenzato tra paradossali scene “d’azione” (con tanto di panoramiche a schiaffo) e una ben dosata ricostruzione del contesto narrativo attraverso le svariate telefonate del protagonista. A patto di chiudere un occhio sulla sorprendente potenza dei ripetitori telefonici in Iraq, le schegge di narrazione che vengono lasciate penetrare nella cassa tramite il cellulare pennellano un personaggio credibile, una vicenda plausibile e ben orchestrata e la dose minima sindacale di colpi di scena richiesta dal genere . Persino la spompa e didascalica critica alla guerra in Iraq finisce per risultare perfettamente convincente come espediente funzionale alla preparazione del finale. Davvero difficile pretendere di più da un prodotto di questo tipo.

Alfonso Mastrantonio
Alfonso Mastrantonio
Alfonso Mastrantonio, prodotto dell'annata '85, scrive di cinema sul web dai tempi dei modem 56k. Nella vita si è messo in testa di fare cose che gli piacciano, quindi si è laureato in Linguaggi dei Media, specializzato in Cinema e crede ancora di poterci tirare fuori un lavoro. Vive a Milano, si occupa di nuovi media e, finchè lo fanno entrare, frequenta selezioni e giurie di festival cinematografici.

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