mercoledì, Dicembre 11, 2024

L’imbroglio di Carta, i manifesti del cinema nel volume di Andrea Falaschi

L'imbroglio di Carta è il bel volume di Andrea Falaschi dedicato ai manifesti del cinema in un ampio arco temporale che va dal 2010 al 1951. Un viaggio a ritroso che supera le funzionalità del catalogo per raccontare una storia visuale e sensoriale. La recensione del volume e un video per farvelo vedere da vicino.

Uno dei volumi più recenti tra quelli dedicati ai manifesti cinematografici, capace di imporsi all’attenzione anche dei più distratti è probabilmente “The Act of Seeing“, la raccolta curata da Nicholas Winding Refn nel 2015 e dedicata ad un periodo circoscritto del cinema statunitense di serie b. Concepito come un’appassionata ricognizione sul concetto stesso di exploitation, prende forma dalla collezione personale del regista danese, per definire i confini di una vera e propria avventura visuale. L’atto di vedere viene riproposto attraverso una sequenza di immagini, la cui qualità cinematica risiede nella loro combinazione.

Il bel volume di Andrea Falaschi, macellaio Sanminiatese attento all’arte complessa del lavoro con la materia, mette insieme passione sincera per il cinema e attenzione al dettaglio. La sua collezione personale di manifesti supera la funzione del catalogo, con un’organizzazione visiva e sensoriale che cerca di restituire la stratificazione esperienziale che il manifesto di un film ha veicolato al di qua della sala, sin dalle affiche fine ottocento. Rispetto al volume di Refn c’è una dimensione tattile e visuale più evidente, per una questione di scelta.
Qualità della carta, affidata a La Grafica Pisana di Bientina e un lavoro di impaginazione curato da Andrea Lippi, che estrapola motivi grafici, texture e suggestioni optical, per costruire un vero e proprio viaggio visuale. Nelle pagine più riuscite, il manifesto viene segmentato e allo stesso tempo espanso, rielaborando i colori dominanti o la presenza significativa del lettering. Il passaggio da “Film socialisme” di Jean Luc Godard a “Moon” di Duncan Jones, per esempio, diventa una sovrapposizione tra motivi ottici e colori fondamentali, quasi fosse un attraversamento dimensionale d/al nero.

Gli unici criteri visibili di organizzazione del volume sono la data e il paese d’origine, l’illustratore, quando è presente e le dimensioni del formato. Il resto è affidato ai principi del visual design. L’atto del vedere in questo caso viene sollecitato dall’espansione di quelle regole che in un manifesto concentrano segni, colore e luce entro una cornice circoscritta, così da dialogare tra una pagina e l’altra. L’optical art di Saul Bass può allora esondare dal manifesto di “Anatomy of a Murder“, per popolare lo sfondo dove viene ospitato il saggio di Andrea Borghini.

Il filosofo Borghini è in buona compagnia, insieme al regista Tonino De Bernardi, allo storico dell’arte Noriyuki Kai, all’attuale segretario del Centro Pecci Giacomo Forte e all’illustratore Sam Gilbey. Ognuno di loro esamina un aspetto del manifesto cinematografico, elaborando riflessioni semiotiche, legate alla comunicazione visuale, alla storia dell’illustrazione e nel caso del flusso di coscienza di De Bernardi, vicine ad un’idea di cinema fieramente fuori dalle cornici industriali imposte.

Con l’introduzione curata dallo stesso Falaschi, il manifesto diventa oggetto vivo, proprio in virtù della sua fragilità. Storicamente escluso dalla vendita diretta, la sua conservazione attraverso i decenni è stata affidata alla passione dei collezionisti, tra mercatini, aste, diritti volatili e incerti, accordi carbonari con i proiezionisti delle sale di provincia.
La storia non scritta del reperimento e della catalogazione, molto simile per certi versi a quella delle librerie sonore ai margini della nostra discografia, va di pari passo con quella della fruizione.

Entrambe sono certamente mutate, ma viaggiano sullo stesso binario fantasma. Il movimento è caratterizzato dall’attraversamento di una soglia. Per lo spettatore lungo tutti i decenni che precedono l’esplosione delle piattaforme VOD, il limite è stata la tenda che separa la biglietteria dalla sala.

Questo territorio del possibile concentrava nel manifesto i segni di un codice ancora da scoprire. Falaschi lo chiama Imbroglio, sottolineandone le potenzialità affabulatorie, ma anche quelle di un imbonitore che spaccia immagini miracolose, quindi sottoposto ad una concentrazione semantica estrema e visionaria.

In questa ipertrofia di segni, fedeltà e tradimento, rispetto alla visione agognata, possono scambiarsi di posto.

Questo stesso limite che il manifesto invita a valicare, indica altri percorsi per il collezionista. Prima di tutto quello della reperibilità dei supporti. In seconda battuta, la possibilità di catalogarli, in alcuni casi per la prima volta, perché la memoria potrebbe correre solo sui flani monocromatici dei quotidiani.

Falaschi mette insieme alcuni pezzi splendidi per colpire al cuore e attivare una macchina del tempo. Segue infatti una cronologia inversa, dal 2010 al 1951. Forse per suggerire che l’ultimo decennio dove l’accelerazione digitale ha finito per disgregare, pandemicamente, l’esperienza comunitaria, ha confinato i manifesti in un’area che non è più in grado di individuare un confine né di modellare il paesaggio urbano, come accadeva almeno fino agli anni ottanta. Nello sdipanare i decenni, proprio come un gomitolo, la logica è quella della successione cromatica, dell’accostamento fluido, del trascolorare dalla composizione al segno o al contrario, con i “digitalismi” di Lippi, dai motivi alla visione d’insieme, come accade con i globi che introducono Day of The Dead di George A. Romero. Emergono nomi noti e meno noti, come il compianto Enzo Sciotti, morto lo scorso aprile, il lavoro di Giuliano Nistri per Michelangelo Antonioni, ma anche alcune perle, come lo splendido manifesto di Eduardo Munoz Bachs per Cara a Cara di Julio Bressane.

Per indie-eye l’attenzione ai supporti fisici e al mondo materiale non ha una valenza nostalgica, ma rappresenta la capacità di interagire con gli oggetti, come strumenti di mediazione simbolica per attraversare le numerose nozioni di realtà.

Sfogliare “L’imbroglio di carta” allora è un rituale. Qui di seguito, l’abbiamo allestito per voi.

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Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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