Parasite di Bong Joon-ho: la recensione

1991

In Parasite Bong Joon-ho sembra formalizzare il magma del fatto sociale, il farsi già dato e sempre in movimento della cronaca del tempo e dell’evento attuale del proprio contesto-ambiente, in una fotografia a un tempo astrattiva e descrittiva, accademica quasi.

Inizia il racconto del lento inserimento domestico di una famiglia povera dentro gli schemi di una famiglia ricca pensando alla meccanica degli incastri e degli equivoci, posiziona simboli e densità semantiche in modo da attrarre le interpretazioni a tavolino, si auto smaschera a ripetizione (“quanto è metaforico” dice spesso uno dei protagonisti”) e poi prosegue a spalmare un uniforme congelamento metaforizzante sugli eventi: si abbandona con maestria a curve narrative sinuose, frenate improvvise e ripartenze, sempre intorno ad angoli e frontalità calcolate – prossemica al millimetro (la casa della vicenda è costruita da zero come set apparentemente spontaneo) – per impalcare un concerto di senso lucidamente attestativo, una sfera documentale – la lotta di classe in Corea – di superficie illesa capace di girare senza soluzione di continuità su se stessa.

Solo apparenza: nel momento di stasi e atrofia una soluzione incide sul testo; come un taglio sulla cornea apre un doppio fondo, spolpa il corpo molle della metafora e apre al rigurgito del reale, dell’inconscio sommerso, della sofferenza incarnata.

Dal basso, dal ctonio.

La sorpresa squaderna la trama orizzontale dei piani e libera una forza verticale tragica che dalla seconda metà buca il sostrato metaforico e si fa immagine di tutte le emesi “non viste” e “non percepite” nel film: l’esplosione dei secchi d’acqua, l’ondeggiare del caffè durante un tragitto in macchina, l’allagamento inarrestabile, il senso reale di una pietra, l’odore-la polluzione.

Immagine non disincarnata dalla tragedia, non metalinguaggio descrittivo assolto dalla vicenda raccontata, ma pugnale in emersione tra le stratificazioni: rottura di quello stato di sdoppiamento rilevato da Marx – la storia che si ripete come tragedia e poi farsa – e quindi abbandono dell’inattuale modello della lotta tra classi, invece comprensione disillusa della natura esponenziale (parassitaria per implementazione intrinseca, per contagio, per riflesso infinito) della sconfitta, dell’impossibilità di ribaltamento sognato. Quella che sembrava una scollata metafora dall’alto, irrigidita nella formalizzazione, è in realtà il documento in diretta della risalita, della vendetta del reale sommerso dalla rappresentazione, e assieme l’intuizione sintetica della condizione attuale dello sguardo – costretto alla propria posizione, incapace di comprendere l’altro.