Elliott Smith – An Introduction To… Elliott Smith (Kill Rock Stars, 2010)

1323

Dirò un’ovvietà ma capita spesso che gli incontri fra persone generino altrettante collisioni di universi musicali.
Elliott Smith l’avevo già ascoltato, lo ammetto, certo è difficile e ancor più sarebbe colpevole non aver mai sentito parlare dell’autore che con Miss Misery è stato candidato all’Oscar assieme a Gus Van Sant per il film Will Hunting – Genio Ribelle ma, nell’ultimo anno, Elliott Smith s’è introdotto per caso, con garbo e sempre più profondamente, nella mia vita. È facile innamorarsi della musica che ha formato chi ci è affine, così ho cominciato ad esplorare, apprezzare il percorso artistico del grande cantautore scomparso ma, mai davvero, avrei immaginato di trovarmi a recensire un album di Elliott Smith. An Introduction To… Elliott Smith, purtroppo, non è che una raccolta, ovviamente non poteva essere altrimenti ma fortunatamente si tratta di un progetto curato, scevro da sensazionalistiche pretese di “scoperta” o “riscoperta” di materiale sommario, incompleto, inviso all’artista. Una semplice raccolta introduttiva, appunto, che rende giustizia al cantautore, come recita il sito della Self Distribuzione “se non più importante, alla pari di Jeff Buckley”, chi scrive concorda assolutamente con la prima parte dell’affermazione. La musica di Elliott Smith riesce a coniugare i Beatles a Nick Drake, senza nascondere di aver guardato a Neil Young, Leonard Cohen e tutti i grandi, una formula inattaccabile perché creativamente classica essa stessa. L’apertura è affidata a Ballad of big Nothing, raffinata e vitalistica ballata pop d’autore, eppure, l’accenno alla decadenza supera già di parecchie misure il limite del sospetto.
La melodia indimenticabile di Waltz #2 è tutta al servizio delle parole che introducono un tema centrale in Smith, il sentimento estetico del repentino, dell’incompiuto “I’m never gonna know you now / but I’m gonna love you anyhow”, segue Pictures of me, con un incedere all’altezza dei Beatles più classici, come The Biggest Lie evoca tutto il miglior cantautorato anglosassone a partire, fondamentalmente, da Nick Drake. Alameda coniuga felicemente ogni influenza di cui sopra, si tratta di un ottimo esempio della sintesi individuale dell’universo artistico, intimo, di Elliott Smith. Testo meditabondo e malinconico dove si evidenzia una rara capacità di comporre istantanee psico-pittoriche, tutto a favore di una spontanea tendenza all’empatia. Between the bars è una canzone splendida, meravigliosamente dotata della classe dei grandi, a tratti richiama un Cohen meno sepolcrale, forse per via della voce inconfondibile di Smith. Splendida anche Needle in the Hay, caratterizzata da linee vocali mirabili per un brano semplice e prezioso al servizio delle visioni asfittiche, urbane di Smith alle prese con una necessita ardente, una dipendenza. Last Call, blueseggiante, disperata, è una canzone ad un tempo colma d’energia e disperata, il testo è mirabile: “So you cast your shadow everywhere like the man in the moon” in un crescendo che culmina nell’agghiacciante conclusione, un’indimenticabile metafora nera sulla condizione del “generato”, in ogni sua accezione. Angeles è una canzone breve, d’una bellezza pura e repentina mentre, in Twilight, bellissimi archi conducono, nel crescendo atmosferico, una melodia indimenticabile, qui si parla della corruttibilità dei momenti perfetti, della dolcezza dell’intentato, di come solo nell’inaccessibile risieda la perfezione, l’impossibilità della delusione. Nulla a che vedere con il fascino del proibito, Smith ammira l’alchimia colpevole di una dolce consapevolezza.
Pretty (Ugly before) è tutta costruita attorno al concetto di “Sunshine” sembra l’elaborazione inversa di Twilight, una canzone vagamente solare, sempre rispetto all’universo di Elliott Smith e, per quanto si dica superato, il concetto del Brutto viene rimarcato assai più della guadagnata Bellezza. Angel in the snow è un’altra istantanea folk dal fascino gelido, lo stesso fascino disturbante della linea “Sometimes I feel like Only a cold still life”. Avvicinandosi la chiusura, di Miss Misery viene proposta una versione alternativa, quella delle origini, una canzone colma di poesia quotidiana, capacità immaginifica limpidissima quando “Next door the TV’s Flashing / Blue Flames on the wall” ed ecco, ancora un delizioso episodio venato quanto basta di pop britannico: Happiness.
Happiness, la chiusura, palesa le molteplici possibilità del polistrumentista statunitense con un arrangiamento curato al servizio delle consuete liriche agrodolci. La formula è inconfondibile, già fa storia a sè, la varietà di storia dedicata a quelli in grado di orientare lo sguardo.
Nessuno davvero potrà esimersi, a questo punto, dall’augurarsi che l’alchimia sia fertile quanto è stata repentina.