Kurt Vile – Smoke Ring For My Halo: la recensione

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Nuova pubblicazione per Kurt Vile, dopo il fortunato Childish Prodigy, riemerge presentando Smoke ring for my halo. Fedele da sempre alle ambientazioni folk e lo-fi, conferma le sue inclinazioni proponendo dieci tracce che si snodano in contesti seventies, timidamente affacciati in sfumature pop. Una morbidezza dei suoni abbraccia la voce modulata di Kurt che non fatica nel trovare la comodità necessaria per spaziare in gamme orecchiabili e scarne, una miscela di chitarre acustiche e semi distorte sorreggono il disco nei vari atteggiamenti che s’incontrano.

Le ritmiche pop, commerciali di Society is my friend e In my time, si scontrano con Peeping Tomboy o Ghost Town, pezzi minimalisti e lo-fi che appartengono maggiormente al bagaglio del cantautore di Philadelphia. Un tono più ruvido lo si incontra in Puppet to the Man, uno scorcio di distorsione e psych che rimanda molto a Iggy Pop nella composizione, e a Lou Reed nel cantato. Un full length nel quale ci si perde fra le atmosfere che, nell’insieme, ricordano quelle degli America o Tom Petty , registri delicati dagli intrecci country e folk con forti propensioni commerciali che donano una scorrevolezza che, in questo caso forse, è troppo marcata.

L’ascolto risulta appunto fin troppo levigato, senza guizzi capaci d’attirar l’attenzione, i pezzi, di conseguenza, scivolano senza lasciare particolari segni. Un talento, quello di Kurt Vile, certamente consolidato, ma che troverebbe più conferme in una dimensione più personale e delineata, una pecca che sembra aver lasciato sul posto l’artista, facendolo franare in una ricerca smisurata di una sperimentazione che potesse apparire attuale e, allo stesso tempo, anacronistica, una formula che, evidentemente, non ha saputo trovare. Non ci resta che rimandare l’appuntamento al prossimo capitolo.

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