Fleet Foxes – Helplessness Blues (Sub Pop, 2011)

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Dimentichiamoci che il mondo esiste, dimentichiamoci di secoli di storia musicale, dell’invenzione delle chitarre elettriche, dei Beatles e delle stravaganze di David Bowie. Cosa ci resta? Una chitarra acustica, alcune percussioni ed un’euritmia di voci corali. Ecco i Fleet Foxes, il punto più profondo ed inesplorato della musica, non un semplice connubio di chitarra e voce, quanto l’anima tormentata che spinge verso l’esterno dal nocciolo del pianeta musicale. La loro arte viene fuori come lava dal cratere a cui questo gruppo ha dato vita sul suolo commerciale americano, esplodendo con educazione nel pieno rispetto di quegli stessi anni di storia che con la loro fulgida bellezza riescono a spazzare via. Esagerati? No, questo è il disco del 2011, il non plus ultra che nessuno si sarebbe aspettato, proprio perché arriva inaspettato e colpisce dritto al cuore dell’ascoltatore, un ascoltatore disarmato, incapace, ad un primo ascolto, di raccogliere tutte quelle parole deliziose che i Fleet Foxes lanciano come se fossero piccioni viaggiatori portatori di un messaggio ottimistico: ascoltare questo album è come leggere un vecchio romanzo di Robert Louis Stevenson in cui l’aspetto motorio del viaggio si fonde con la progressione della crescita umana interiore. La formula musicale non è poi così diversa da quella dell’omonimo disco precedente, c’è sempre quel piglio appalachiano che si concretizza in quei cori montanari che rendono il suono più magico: d’altronde, proprio grazie a questo nuovo approccio nei confronti della musica tradizionale dell’omonima regione culturale americana, per i Fleet Foxes è stato più volte utilizzato – in termini descrittivi del genere proposto – il neologismo “alt-appalachian” (musica appalachiana alternativa, n.d.r.). Helplessness Blues si apre con la classica Montezuma, dove Robin Pecknold, l’oratore del gruppo, tira le somme della propria tormentata vita, una vita di lotte paragonabili alle battaglie di Chapultepec e Derna, perché l’uomo, “da Montezuma a Tripoli”, ha sempre davanti il solito cammino fatto di ripide salite e piacevoli discese. Il disco accelera subito con la successiva ed ipnotica Bedouin Dress, con qualche suggestione bluegrass ed un testo che conferma una certa vena geografica del gruppo statunitense, almeno in questo disco: in questo caso i Fleet Foxes si rifanno alla poesia William Butler Yeats, “L’isola del lago d’Innisfree”, regione che il gruppo utilizza per descrivere un luogo dalla perfezione utopica, un luogo di ipotetica fuga. Battery Kinzie è sicuramente una papabile eletta a bissare il successo di White Winter Hymnal, la canzone che ha reso i Fleet Foxes famosi a pubblico e critica: ritmo alt-country e variazioni vocali nel rispetto della propria tradizione armonica. Tante sono le citazioni letterarie, come tanti sono i riferimenti culturali – mai casuali – a cominciare dal primo singolo estratto, la title-track, Helplessness Blues, il cui rimando agli studi sulla società rurale di stampo marxista si concretizza in quei versi che racchiudono il senso dell’intera canzone: “If I had an orchard, I’d work till I’m raw/ If I had an orchard, I’d work till I’m sore/ And you would wait tables and soon run the store”, dove l’orto (orchard, n.d.r.) rappresenta proprio il compromesso anticapitalistico descritto dal gruppo. Non possiamo non citare il racconto onirico di Grown Ocean, né dimenticare il crescendo rapsodico della strumentale The Cascades, che non ha bisogno di parlare per essere eloquente. Tornando al principio della nostra recensione, possiamo confermarvi che ascoltando questo album ci siamo dimenticati del resto del mondo, dei secoli di storia musicale, dell’invenzione delle chitarre elettriche, dei Beatles e delle stravaganze di David Bowie. Ora abbiamo i Fleet Foxes e con la loro musica è finalmente cominciata una nuova era.

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