venerdì, Maggio 17, 2024

Nobody Wants the night di Isabel Coixet – Berlinale 65, Fuori concorso

Le scoperte dell’esploratore statunitense Robert Edwin Peary sono state ridimensionate più volte nel corso della Storia, senza entrare nel dettaglio, tutta la contesa con Frederick Cook relativa al primato sulla conquista del polo nord, oltre ad essere descritta con un linguaggio apertamente “bellico” legato  alla cultura antropologica dei primi anni del ‘900, documenta con toni aspri la relazione tra il desiderio di dominio dell’occidente e una mitologia connaturata a quella specifica dimensione politica, incluse le smentite e le amplificazioni leggendarie dei fatti.

La sceneggiatura di Miguel Barros per “Nobody Wants the night“, rimuove completamente la figura di Peary confinandola in uno spazio mitico e misterioso, inghiottita dagli elementi della natura e capace di esercitare un’influenza simbolica sulla vita delle due protagoniste femminili, la moglie Josephine Peary (Juliette Binoche) e una nativa Inuit chiamata Allaka (Rinko Kikuchi). La “conquista” del Polo Nord viene quindi osservata da Isabel Coixet con lo sguardo degli studi post-coloniali, cercando di rivelare il legame del potere con il progresso scientifico attraverso la cancellazione dei segni identitari occidentali nella violenza indifferente della natura.

Del marito Josephine troverà solamente una baracca di legno costruita in mezzo al deserto ghiacciato e un ritratto conservato da Allaka, segni di un passaggio che  alimentano l’attesa febbrile della donna costringendola a confrontare la propria cultura con quella della nativa Inuit e a trovare una forte comunanza per contrastare la presenza ostile di una terra senza luce.

C’è una forte analogia tra Josephine Peary e la Camille Claudel di Bruno Dumont, due occasioni di lotta per l’attrice francese con-tro la non modellabilità di un paesaggio immanente, ma mentre nel film del cineasta belga la generosità performativa della Binoche si confonde con la trascendenza muta della pietra, in “Nobody wants the night” Isabel Coixet fa di tutto per limitarne lo scontro, basta pensare alla sequenza in cui Josephine devastata dal dolore per i confini sempre più labili del suo mondo, cerca un contatto con il ghiaccio, mangiando la neve, mentre la musica cancella ogni riferimento sonoro trasformando un momento di possessione in un’immagine illustrativa che si interpone tra l’occhio e il corpo. È la stessa opacità che affligge tutto il film della regista catalana, preoccupata di portare in superficie tracce e segni di cecità ottundente dove l’obiettivo esplicito è quello dello scontro traumatico tra culture diverse; il grammofono che riproduce un acetato di Caruso sulle rocce emerse dal ghiaccio, il costante riferimento all’atto del cibarsi tra etichetta e necessità primordiale, il contatto attraverso la maternità, gli elementi della natura che si trasformano in una prigione oppure in un teatrino stellato.

E se le intenzioni sembrano quelle di riferirsi alla prosa scabra di Jack London, servendosi anche di un narratore onniscente, rispetto a “Il richiamo della foresta” dove il punto di vista subisce un brusco slittamento tra corpi, natura e necessità survivaliste arrivando ad allinearsi a quello di un cane, l’occhio della Coixet non scende in basso nè tocca i corpi; rimane invece a distanza come quel mascherino di maniera che a un certo punto stringe sul volto di Josephine.

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi

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