martedì, Marzo 19, 2024

Yumen di J.P. Sniadecki, Huang Xiang, Xu Ruotao al Festival dei Popoli 54

Yumen era una città industriale nella provincia cinese nord-occidentale di Gansu. Condutture di oleodotti e gasdotti, raffinerie di petrolio, industrie petrolchimiche e centrali termiche, un tempo molto fiorenti e oggi abbandonate dopo il prosciugamento dei pozzi, erano il suo orizzonte. Territorio spettrale della Cina del cosiddetto “balzo in avanti”, una selva di ciminiere indica inequivocabilmente la destinazione d’uso, mentre nell’area dormitorio, location del film, un tempo la vita delle famiglie di operai e impiegati ferveva, agiata e dinamica.

Quando gli uomini emigrarono per lavorare ad altri pozzi, racconta la voice over, le donne restarono a Yumen e le famiglie pian piano si disgregarono. Seguì l’abbandono totale e iniziò il degrado, fino al fantasma di quello che era stato, un tempo molto lontano, un importante avamposto del Celeste Impero, lo Yumenguan o “frontiera della Porta di Giada”, dal nome delle carovane cariche di giada che l’attraversavano, ancora prima che Marco Polo arrivasse da quelle parti.

Questo il racconto che rompe il silenzio, di tanto in tanto, un silenzio scandito dal calpestio dei passi sui vetri rotti, dal latrato di due cani alla catena o da un’incredibile vocina che canta canzoncine allegre da Luna Park, un sonoro così inaspettato e volutamente fuori registro da risultare ancora più spettrale delle immagini. Regia di Xu Ruotao, fotografia e suono di J. P. Sniadecki e Huang Xiang, in una co-produzione cinoamericana, danno forma ad una visione che sta fra documentario e performance, dove l’impatto fisico delle immagini risulta straniante per la perdita del significato rispetto al significante. Uomini e donne, come pupazzi ad orologeria dal meccanismo inceppato, entrano ed escono dai palazzi disabitati e fatiscenti, compiono azioni insensate come raccogliere avanzi di cibo, pettinarsi, ballare. Camminano senza una meta, si agitano come fossero in discoteca, l’uomo dipinge volti umani su una parete fino a riempirla con rapidi tocchi di pennello, un altro, o forse è sempre lui, dorme fra polvere e macerie o appare, nudo, al colmo di una colonna, e muove le braccia come a spiccare il volo.
L’efficacia del tema proposto è affidata esclusivamente ad argomenti visivi. Si tratta di catturare quel residuo di memoria che si attarda in un luogo anche quando questo è disabitato da tempo, e le forme di comunicazione diventano altre.

Ma ridare voce ad oggetti corrosi dal tempo, si tratti di fossili o reperti archeologici, appartiene alla categoria delle scienze umane governate dai cicli naturali del tempo. Qui siamo oltre il tempo e i suoi percorsi conosciuti, un’accelerazione che la retta ragione umana non può spiegare ha travolto i canoni consueti, e ciò che sopravvive è follia. Come i gesti insensati di quegli uomini, come i filari di palazzi tutti uguali, sforacchiati da finestre con i vetri rotti, stilemi di incomparabile bruttura che accomuna le architetture di regime.

L’esperimento non è nuovo. Ricordiamo 100 fiori nascosti nel profondo
 di Chen Kaige, 
ultima sezione da Ten minutes older-The Trumpet, 2002. Anche lì la comunità è stata azzerata e al suo posto c’è il deserto, come il lago in Still Life, 2006, di Jia Zhang-Ke, un invaso che ha cancellato tutto, vite, ricordi, famiglie e futuro. C’è un ritorno ciclico del tema, dunque, ad ispirare un cinema documentario capace, però, di andare oltre il semplice documento. Siamo in un territorio di confine che si colloca fra finzione e realtà, una specie di res nullius dove ciò che appare non è più quello che era. Il realismo delle immagini si scontra con il senso straniante della loro presenza sulla scena, sono passi nel delirio rappresentabili solo attraverso parvenze di una tangibilità fittizia. Far rinascere la vita nell’arte, dunque? Operazione di ricostruzione memoriale affidata al cinema? Delirio o unica saggezza possibile?
 Ai due estremi ci sono il tempo della distruzione e il tempo che lascia il pieno nella mente e nel cuore. Uno spezzone di pellicola scorre controluce fra le mani in una sequenza, la metafora è evidente.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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