giovedì, Novembre 7, 2024

Enclave di Goran Radovanović: la recensione

Enclave rappresenta uno sguardo trasversale sulla guerra, una visione del conflitto vista attraversa gli occhi innocenti e silenziosi di Nenad (Filip Šubarić), un bambino serbo cristiano che vive in Kosovo, in una sorta di isolamento forzato.

Sono proprio i suoi occhi inconsapevoli, che scrutano un mondo in rovina tra le fessure di un carro armato, a condurre lo spettatore all’interno di questo quadro filmico dai colori freddi, in cui la luce e il buio spesso si amalgamo nell’intensità del suo significato. Il film affronta un tema delicato e importante, come quello legato alla Questione Kosovo, focolaio di lotte infinite e crogiolo di etnie e religioni diverse, con la forza dura e sincera dell’infanzia, quella spesso negata, che intende, nonostante tutto, continuare a giocare nella vita.

L’obiettivo della macchina da presa indaga dall’alto le macerie del conflitto, che collimano con la bellezza degli scenari di una natura brulla e incontaminata, mentre sui resti ancora fumanti della violenza, sui volti aspri e logorati dalle ostilità, sanguinano le esistenze umili e difficili dei suoi protagonisti.

All’interno di questo canovaccio visivo, Nenad incarna la solitudine dell’assenza, della mancanza di pace e di libertà, lui unico allievo della sua scuola che ha come unico compagno di giochi suo nonno morente Voja (Meto Jovanovski), ma trasfigura altresì il superamento delle distanze, la rottura dei muri edificati dagli adulti nella ricerca spirituale di un’amicizia possibile, quella con il ragazzino albanese Bashkim (Denis Murić).

Nenad e Baskim sono l’yin e lo yang di una verità che vuole essere oggettiva, ma che cova un’altra realtà realizzabile. Rappresentano l’anima mite di chi sa perdonare, donando una barretta di cioccolato, e quella che cova un’aggressività latente eredità dei padri, con una pistola pronta a sparare, ma che alla fine è incline alla sua redenzione.

Goran Radovanović dirige con lucidità la sua storia senza dare giudizio alcuno, aprendo un varco sui deboli tutti, sugli spiriti solitari che subiscono la guerra senza volerlo. È un film che vuole allontanarsi da un punto di vista di parte per raccontare l’universalità della realtà. È un lungometraggio toccante che mira a frantumare qualunque barriera e confine con la forza delle immagini e dei dialoghi. Le lacrime vengono in definitiva cristallizzate nella purezza di un bambino, emblema di una speranza lontana dall’odio e dalle armi ed epurata del peso della memoria.

Ida Stamile
Ida Stamile
Ida Stamile, classe 1984, nel 2006 consegue una Laurea di primo livello in “Discipline delle Arti della Musica e dello Spettacolo” e nel 2009 una Laurea Magistrale in “Saperi e Tecniche dello Spettacolo Digitale”. È una giornalista e videomaker. Oltre che per indie-eye scrive di cinema e di musica da diversi anni per numerose testate e si occupa anche di ufficio stampa

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