giovedì, Dicembre 12, 2024

Il venerabile W. di Barbet Schroeder: la recensione

Per giustificare la sua retorica islamofobica il monaco buddhista Wirathu guarda in camera e sottolinea che il male è un fatto biologico. L’affermazione attiene alla metafisica più che alla religione e assume connotati scioccanti per due motivi: in primis perché è una presa di posizione netta sulla natura ontologica e quindi primigenia di ciò che è opposto al bene; in secondo luogo perché è espressa da uno dei rappresentanti più conosciuti di una religione conosciuta per gli ideali di pace e armonia universale. Secondo il monaco il male però non solo non possiede connotazioni morali ed etiche (e quindi non è materia di scelta) ma è anche legato a determinati individui, che è necessario allontanare, sradicare e debellare dalla sfera sociale, religiosa e politica. Questi individui malvagi, responsabili del crollo della pace e dell’instabilità politica di una nazione (il Myanmar) altrimenti condotta serenamente dal consiglio buddhista, come anticipato, sono i membri della religione musulmana.

Barbet Schroeder apre con queste dichiarazioni Il venerabile W., capitolo di chiusura della sua trilogia (composta anche da Idi Amin Dada e L’avvocato del terrore) sul male incarnato. Lo fa secondo uno dei due movimenti strategici scelti per catturare la psicologia, l’asse esperienziale e le motivazioni di un soggetto disprezzabile e affascinante: scomparendo dietro a una posizione laterale, in favore dell’accentuazione delle teorie folli del suo protagonista; lasciando l’apparente gestione della storia al suo soggetto e alle sue idee sulla necessaria pulizia etnica in Birmania, per favorire l’impatto tra il gli eventuali spettatori e il linguaggio di uno dei più capaci narratori della nostra epoca; quindi ottenendo, grazie a una sottrazione del proprio sguardo autoriale, una prova del male in azione, espresso senza dietrologie, senza riflessioni a posteriori, nel suo momento di autoconsapevole, rilassato compimento. Sottrarre la dialettica del dibattito all’indagine documentaristica potrebbe sembrare tesi controintuitiva e controproducente e invece è momento completato da un secondo gesto, che invece si determina per contributo attivo più che per assenza di partecipazione.

L’unica costruzione di senso evidente imputabile all’autore è infatti il contrasto ossimorico ottenuto tra le carrellate silenziose trascinate dalla lettura in voice over dei precetti buddhisti – in una lettura del mondo-ambiente che, correndo da destra a sinistra, suggerisce un’idea di pace cosmica attraverso l’interazione dei corpi nello spazio – e l’utilizzo del convulso materiale video filmato dai telefonini nelle grandi scene delle manifestazioni: in questo modo il regista mette in risalto la contraddizione tra un calcolato artificio artistico (che pronuncia con voce commossa le scritture) e una selvaggia scheggia di reale (che testimonia il divampare della violenza legata all’estremismo): in altri termini la distanza che intercorre tra un’idea di grazia e il risultato della distorsione e della strumentalizzazione ideologica della stessa. Questa formula visiva identifica nello scarto la voragine che si dispiega quando il dominio del pensiero è nelle parole di tiranni che approfittano, in un tempo privo di certezze, della necessità di popolazioni senza strumenti culturali di seguire un narratore forte.

Attraverso questa doppia grammatica cinematografica (ora visibile ora invisibile) Schroeder approfondisce il male oltre la piatta e auto esplicativa dimensione dello shock muto (perché capace di urlare ma non di ferire), e guarda nel fondo di architetture prospettiche che vanno oltre la provocazione e toccano la riflessione ontologica – interessata alla posizione del male rispetto all’uomo. Lasciando la possibilità a Wirathu di esporre le proprie tesi (terrificanti incroci assiomatici di estremismo religioso e dominio ideologico) e ottenendo risposte dal suo contesto grazie all’esplorazione diretta mediante i video delle conseguenze dei suoi insegnamenti, il regista abbraccia la complessità del male nella sua estensione dall’agente provocatore al termine dell’azione nel mondo, confutando il precetto fondamentale del monaco: il male è sempre e solo scelta dell’uomo, appartiene all’umano perché ad esso è riconducibile, ed è risultato di un movimento etico.

Leonardo Strano
Leonardo Strano
Primo Classificato al Premio "Alberto Farassino, scrivere di Cinema", secondo al premio "Adelio Ferrero Cinema e Critica" Leonardo Strano scrive per indie-eye approfondimenti di Cinema e semiotica. Ha collaborato anche con Ondacinema, Point Blank, Taxidrivers, Filmidee, Il Cittadino di Monza e Brianza

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