lunedì, Aprile 29, 2024

Old Boy di Spike Lee: l’identità frammentata

Joe Doucett è un dirigente pubblicitario con problemi di alcolismo. Una notte viene inspiegabilmente rapito e segregato in una stanza per vent’anni. Ritrovatosi improvvisamente libero, decide di indagare sull’identità del misterioso rapitore. La lunga ricerca lo porterà alle ambite risposte, ma anche a delle rivelazioni ancor più terribili.

Oldboy, ultimo lavoro di Spike Lee, procura un effetto epifanico allo spettatore non digiuno da opere del regista di Atlanta. La nuova angolazione da cui ha gettato il suo sguardo sulla contemporaneità rischiava forse di essere troppo alta, ma un’eccellente costruzione della storia riesce efficacemente negli intenti preposti, seppur ambiziosi. Tralasciando i paragoni con l’originale versione del 2003 firmata da Chan Wook Park, di cui si è abbondantemente discusso (arenandosi tristemente), l’approccio esegetico qui proposto ha ben altri traguardi, volendosi addentrare nell’anima autentica del film.
Spike Lee, e qui è la sfida, utilizza la chiave intertestuale e intermediale per rivelare la condizione dell’uomo contemporaneo. Attingendo da un’opera di appena dieci anni fa riesce, dotandola di una nuova veste, a suscitare nuove suggestioni e riflessioni su una società che sembra trascinarci sempre più verso esiti alienanti. La frammentarietà della società postmoderna ha ormai condannato l’uomo alla medesima prerogativa, e l’intuito di un autore con alle spalle studi massmediologici non poteva restarne insensibile, in vista di un film che sfiora tematiche dal retrogusto evidentemente esistenziale già nella versione coreana. Perché Spike Lee è un autore convinto che il ruolo dell’artista sia proprio quello di rispecchiare la società in cui vive nel proprio lavoro. E film come Jungle Fever e Fa’ la cosa giusta lo dimostrano chiaramente. Ma, sebbene sembrerebbe essersi finalmente liberato da quel marchio che quasi lo declassava ad autore monocorde, anche in questa sua ultima impresa sembra alludere di fondo alla consueta tematica della discriminazione razziale e del conflitto di classe. Ma questo cambio di rotta espressiva riesce comunque a fargli prendere il largo verso quel naturale processo di innovazione a cui tutti gli artisti, in quanto più lucidi analisti dell’umanità, dovrebbero tendere.
Fin dalle prime immagini appare chiaro l’intento di Lee nel raccontare le vicende attraverso il punto di vista soggettivo del protagonista. Una percezione quasi allucinata, come è inevitabile che sia quella di un alcolista. Ma un elemento ulteriormente significativo rafforza la giustificazione di immagini distorte e destabilizzanti. Joe Doucett, non a caso, è un pubblicitario, un esponente di quella casta che dagli anni 90 (periodo di inizio della storia) in poi ha, adottando tutti i supporti mediatici, contribuito alla costruzione della cultura cosiddetta postmoderna. Ricordo accidentalmente il primo romanzo di Don De Lillo, Americana, dove il protagonista che ci coinvolge nel suo mondo allucinato è anche qui, guarda caso, un dirigente pubblicitario. E ci si potrebbe prolungare a lungo su quanto questo film sia strettamente connesso con la letteratura postmoderna (vedi American Psyco). Ma, non volendosi incuneare troppo in considerazioni da cui non ne usciremmo, basta osservare quanto questo apparentemente trascurabile elemento ci fornisca una chiave esegetica meta-testuale. Riflessioni sull’illusione, la finzione e la recitazione, che trova il suo culmine in una forse azzardata citazione shakespeariana nel finale, con il melodrammatico suicidio del villain Adrian Pryce che recita il “Tutto il resto è silenzio” dell’Amleto prima di farsi saltare le cervella. Una citazione non del tutto gratuita quindi, alla luce delle premesse fatte. Come è noto, il capolavoro di Shakespeare è, come il più delle sue opere, soprattutto una riflessione meta-teatrale, sfiorando temi esistenziali come la ricerca di realtà ed il ruolo dell’uomo sulla terra, che appare come <<Un’ombra che cammina. Un povero attorello sussiegoso che si dimena sopra un palcoscenico per il tempo impiegato alla sua parte, e poi di lui nessuno udirà più nulla>> (volendo rafforzare il citazionismo).
Le squilibrate angolazioni ed i movimenti di macchina sporchi, con l’utilizzo frequente della mdp a spalla della prima parte, ci proiettano quindi da subito nello spazio mentale di Joe. Il suo lavoro, in quest’ottica, assume un valore speculare alla sua condizione. Un uomo completamente distaccato dalla realtà, errante in un mondo psichedelico, costruito su illusioni e percezioni distorte. La scena che precede il rapimento, ambientata in un ristorante, al tavolo con un cliente e la sua fidanzata, è strutturata in un modo emblematico. Approfittando dell’assenza dell’acquirente, Joe incomincia un molesto tentativo di corteggiamento verso la donna. In questo frangente egli cambia faccia e si confessa un “contaballe”, il montaggio alterna primi piani del viso di Joe che collidono e sembrano trasgredire il convenzionale cerchio del movimento macchina, creando un forte effetto destabilizzante allo spettatore. È qui il punto di rottura, il momento in cui Joe inizia il suo declino, il suo completo distacco dalla realtà e da se stesso, che lo porterà alla fatale segregazione e alla consequenziale autoanalisi di dostoevskiana memoria. Ma le forme che assume il castigo forzato non è dissimile dalla dantesca concezione del contrappasso. E, a scopo esplicativo, appoggiandomi nuovamente ad un supporto letterario, rimando ad un romanzo che contiene tutti gli elementi che Spike Lee affronta in questo lavoro (rapporto tra sesso e immagine video, snuff, frammentarietà, organizzazioni segrete d’elite per scopi perversi, ecc.): Palpebre, di un autore, Gianni Canova, che non a caso è tra i più eminenti studiosi e storici di cinema e mass-media. Canova riprende la pena della cigliatura, a cui accenna Dante nella Divina Commedia, inflitta a coloro giunti all’inferno perché non capaci di guardarsi dentro. Allo stesso modo, Joe Doucett, viene definito come un uomo con <<un altissima opinione di sé e di nessun altro>>, ed il suo isolamento si configura quindi come un processo di auto-ricongiunzione con se stesso, una analisi della sua morale, della sua vita passata, dei suoi errori, colpe e mancanze verso gli affetti e gli amici. Vediamo compiersi tale evoluzione in coincidenza con un suo regresso primordiale: la barba e i capelli sempre più lunghi, il distacco dalle dipendenze ed il ricongiungimento con il suo corpo, ora atletico e sano, di contro a quell’immagine allo specchio dell’inizio in cui ci appare flaccido e fuori forma. Joe Doucett è un uomo a pezzi, ma non solo nel senso abituale dell’espressione. (continua nella pagina successiva…)

Andrea Schiavone
Andrea Schiavone
Andrea Schiavone, appassionato di cinema ha deciso di intraprendere studi universitari in ambito cinematografico. Laureatosi in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma ed attualmente studente magistrale in Cinema, Televisione e New Media alla IULM di Milano.

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