mercoledì, Maggio 1, 2024

Oh Boy, un caffè a Berlino di Jan Ole Gerster: un Ulisse senza padri celebri alla scoperta della città

Niko Fischer (Tom Schilling) è un venticinquenne dal profilo di personalità molto standard di questi tempi: irresoluto, assenza di motivazione, incipiente stato catatonico. Con preoccupante tendenza al nichilismo, si muove alla deriva nello spazio circostante. Né bello né brutto, né alto né basso, non ha un lavoro, non ha una ragazza, o meglio, l’aveva ma l’ha lasciata il mattino a letto a chiedersi “perché?”, non ha la patente, ritirata per guida in stato di ebbrezza (ma non sembra avere una macchina), non ha un padre che si prenda cura di lui da quando ha scoperto che non fa esami di giurisprudenza da due anni, di una madre non c’è l’ombra, potrebbe anche essere morta, e la carta di credito l’ha mangiata il distributore del Bancomat dopo l’azzeramento del conto da parte del padre.
La cosa migliore che posso fare per aiutarti é non fare più niente per aiutarti”, gli ha detto al bar del golf il degno erede dei borghesi di Grosz e Otto Dix.

Ma, ed è quel che più conta, Niko non riesce a bere una tazza di caffè a Berlino.
Tre euro e quaranta costa la prima ordinata al bar, il mattino presto. Escluso. Tutte le altre svaniranno per sfortunate coincidenze nel resto della giornata.
Niko non ha intorno a sé una città a colori. E’ una Berlino in bianco e nero, ma non è la città di Fritz Lang, non c’è Fritz Arno Wagner a fotografare la “rappresentazione dell’orrore”. La città corre sui binari della S-Bahn, efficiente ed estranea come sempre, dall’alba al tramonto.
La Friederich Strasse all’incrocio col Ku’ Damm è frenetica di gente e negozi, ma non è la città oscillante fra entusiasmo positivista e influenze futuriste di Walter Ruttmann. Traffico e luci, treni e graffiti sui resti del Muro, lucidi grattacieli che sfiorano il cielo e spazi di cultura alternativa, tutto scorre senza scosse, lo sguardo sulle cose è ironico, a tratti satirico, mediamente indifferente.

Alla musica di Meisel di Berlin, die Symphonie einer Grosstadt, è subentrato il jazz dei Major Minors, un secolo quasi non è passato invano, e ora la Berlino cinematografica è diventata luogo di passaggio/passeggio, città policentrica in cui nulla è rimasto esperibile se non l’idea della sconfinatezza e dello straniamento e un Ulisse senza padri celebri naviga a vuoto. Jan Ole Gerster è un giovane regista alla sua prima opera. La Germania l’ha colmato di doni, tutti meritati. Oh boy è un lavoro di intelligenza mai pedante, dentro c’è gran varietà di metri, dal comico al patetico, passando per il surreale, ma mescolati con giusto dosaggio per toccare varie corde senza cedere a sociologismi e psicologismi fuori luogo.

Il boy Niko è perfetto nel suo incedere in una giornata piena di un tutto che sembra pochissimo, ed è questa la cifra vincente del film,
Il passato, le memorie autenticamente dolorose e le celebrazioni vuotamente retoriche, le rimozioni e il presente con la sua confusione e contraddittorietà, c’è tutto in veloci schizzi espressionisti. Niko attraversa la giornata muovendosi in giro senza uno scopo preciso, la ricerca del caffè è l’unico, labile filo che lo lega alla realtà. Dallo psicologo dei servizi comunali che gli nega la patente al vicino di casa invadente, dalla vecchia compagna di scuola, un tempo chiamata “ciccia-bomba” e ora eterea farfalla, nevrotica e ballerina, all’amico semi-deficiente da scherzetti stupidi, fino al padre e al suo assistente dall’aria gay, una umanità varia ed effimera gli passa accanto e solo due incontri sono quelli che contano: la vecchia nonnina dell’amico del suo amico, con la sua poltrona pieghevole su cui schiacciare un pisolino benefico, come una volta, quando era bambino e l’altro, l’ultimo incontro, al bancone di un bar, con l’ennesima grappa al posto del caffè, mentre arriva la notte di una giornata mal spesa. E’ il vecchio beone che ha bisogno di parlare, nei bar la sera tardi ce n’è sempre uno.

Ma Friederich è diverso. Il suo nome Niko lo saprà dall’infermiera, all’ospedale. Il vecchio è andato via dalla Germania, un giorno, sessanta anni prima. Era bambino, e il padre l’aveva svegliato, una notte, dicendo “colpisci” e gli aveva dato due pietre. Per terra era pieno di vetri, e lui pensava che non sarebbe più andato in bicicletta. Niko lo accompagna nell’ultima fuga, in autoambulanza, e stavolta è definitiva. Poi la giornata finisce così, alla deriva e senza un caffè.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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