lunedì, Dicembre 2, 2024

Gli ultimi a vederli vivere di Sara Summa – Berlinale 69 – Forum: recensione

Uno dei delitti più brutali della storia americana ispirò la cronaca gelida di Truman Capote. Lo stile documentale di “In Cold Blood” era già una potente messa in abisso della narrazione mediale, diventata morbosamente normativa attraverso la comunicazione di massa dei decenni successivi, sostituendo la priorità dello stato diritto con la rimessa in scena della crudeltà. Lo scrittore americano scomponeva le voci, i suoni, le testimonianze e arrivava a manipolare i fatti intorno alla vicenda che portò al massacro della famiglia Clutter nel Kansas rurale del 1959. Un processo di incorporazione e identificazione con il lato più oscuro della storia, che conteneva la negazione stessa dell’occhio testimoniale, in un continuo avvitamento tra cronaca e finzione, cancellazione dell’identità autoriale e violenta riaffermazione della stessa. Nella complessa ricostruzione dei fatti di Holcomb, dentro, ma soprattutto fuori dall’indagine condotta da Capote, emergono sguardi periferici che arricchiscono la visione. Uno di questi appartiene al ragazzo sedicenne di Nancy Clutter, Bob Rupp, l’ultima persona ad aver visto vivi i coniugi e i loro due figli prima del massacro. Bob durante tutti questi anni non ha mai letto “In Cold Blood” né visto gli adattamenti cinematografici che sono stati tratti dal lavoro di Capote. Nel 2009 raccontò ad alcuni giornalisti statunitensi come la prosa distaccata dello scrittore americano avesse consegnato ai posteri la memoria dei Clutter, attraverso una crudele e dettagliatissima storia di violenza, invece di raccontare la pienezza delle loro vite. Il primo capitolo di “In Cold Blood” si innesca implicitamente dal suo punto di vista e si intitola “The last to see them alive“.

Parte da qui il debutto nel lungometraggio dell’apolide franco-italiana Sara Summa, a cominciare dal titolo che assume il punto di vista delle vittime proprio attraverso l’ultima soggettiva possibile, citando esplicitamente il primo capitolo di “In Cold Blood”. Il suo film acquisisce la valenza di una ri-scrittura vitalmente infedele del testo di Capote, nel tentativo di cogliere ciò che si muove ai margini, quando la sovrapposizione tra fatti e quello che rimane fuori campo, può consentire ad una mente attenta e sensibile di far emergere tutte le differenze possibili.
Come si svolgeva la vita di Bobby e Nancy nei giorni direttamente precedenti al massacro? Quale il rapporto con i Clutter e il fidanzato della figlia? Dov’era la dolcezza di una madre nello sguardo rivolto ai figli, mentre combatteva con la depressione?

Sara Summa, durante il processo di ricerca creativa, ha probabilmente dato un peso fondamentale al controcanto dei famigliari, degli amici e di tutte quelle persone vicine ai Clutter, che durante gli anni hanno offerto un punto di vista contrastante rispetto al dispositivo “ufficiale” della “non-fiction”, restituendo nuova vita alle caratteristiche più intime delle vittime. Senza alcuna intenzione polemica, ma con una prossimità specifica a quel contrasto che si verifica tra causalità del tempo e volontà individuale, l’autrice franco-italiana traspone le vicende nella Basilicata contemporanea. Con una didascalia sovrimpressa sulla soggettiva disincarnata di una strada provinciale Lucana, filmata durante un viaggio verso il niente, ci dice subito che la famiglia Durati è stata massacrata nel 2012 durante un furto. Il giorno che precede la loro morte, tra la vita quotidiana nel loro uliveto e i preparativi per il matrimonio della figlia maggiore, occupa l’intera durata del film.

È una scelta coraggiosa quella di Sara Summa, perché si affida ad una morfologia esteriore ed interiore, che lega la matrice temporale del paesaggio al radicamento dell’individuo attraverso il gesto. Questo connubio si acuisce nella forma di un’impalpabile spinta verso la conservazione, dal momento in cui il nostro sguardo viene collocato in una posizione di interminabile attesa. 
Nello spazio circoscritto della durata cinematografica, siamo spinti oltre la percezione bidimensionale, nel tentativo di investire di senso qualsiasi oggetto, interazione, elemento della messa in scena. 

Se all’inizio si ricorre alla scomposizione dei piani soggettivi nella forma della ripetizione di una stessa azione, ri-vista attraverso la posizione di un diverso personaggio, questa segmentazione che occupa solo la prima parte de “Gli ultimi a vederli vivere“, più che la scorciatoia dell’artificio, sembra suggerire la sospensione del tempo nell’analessi estesa lungo tutto il film. Non serve infatti ad aumentarne l’intensità espressiva, ma a determinare la posizione di altri sguardi marginali disseminati. La strada, i vestiti, i gesti legati al lavoro, la terra. Visti più volte con un carico di significati sempre diversi,  iterazioni e anafore del linguaggio poetico che assumono un andamento musicale più vicino alla sostanza dei fenomeni che alla retorica della parola, ma anche persistenza del tempo rispetto alla direzione volontaria dello sguardo. 

La giovane Dora e il fratello Matteo, il padre Renzo e la madre Alice minata nel fisico, sono già morti, oppure in quei segni quotidiani, improvvisamente valutati come presagi, risiede semplicemente la realtà dell’impermanenza? 

È sulla malattia di Alice che vorrei soffermarmi. In modo sorprendente Sara Summa riesce a far coesistere la scarsità di informazioni offerte da Capote con lo sguardo ferito dei famigliari di Bonnie Clutter che hanno raccontato una storia diversa, contestualizzando il suo dolore e restituendole dignità. Alice vive a metà tra questi due mondi, in una sospensione che partecipa dell’irriducibilità dell’esperienza alle dinamiche del racconto e allo stesso tempo della sofferenza come espressione diretta del corpo, prima ancora della rappresentazione di una psicologia tormentata. 

Gli ultimi a vederli vivere” non cede quindi alle angustie riduttive del cinema da camera, sostituendo le necessità descrittive con l’apertura del possibile attraverso il gesto.
Lo sguardo è certamente quello delle vittime, ma anche uno slittamento a partire dal punto di vista di chi le ha viste vivere, un concetto più ampio  e opposto al solo sguardo dalla tomba che evidentemente interessava a Capote. Sara occupa questa posizione insieme a noi e regala la sua voce, congiuntamente a quella della produttrice Cecilia Trautvetter, per la cronaca giornalistica di una terra isolata e destinata all’abbandono. Dalla radio accesa nella cucina dei Durati si descrive le potenzialità turistiche della Basilicata, come una narrazione interrotta a causa della carenza di infrastrutture. Non un punto di vista semplicemente politico, quanto una dimensione quasi ineluttabile e arcaica della lotta tra terra e individuo.

I cacciatori che attraversano improvvisamente la proprietà di Renzo scambiando un dialogo essenziale in bilico tra cortesia e provocazione, il gatto torturato da Matteo, l’assicuratore che sembra quasi annunciare la fine e la persistenza del denaro su qualsiasi realtà, dischiudono molteplici significati mentre transitano senza soluzione di continuità tra la vita e la morte, scombinando nuovamente quel piano di lettura che pensavamo dirigersi solamente verso l’abisso. Come i vestiti appesi alle pareti o abbandonati su una sedia che suggeriscono perversione o al contrario, purezza.

Ecco che il film della Somma, in virtù di queste continue dilatazioni del e nel tempo narrativo, ri-attiva il mistero e la libertà dello sguardo, proprio quando pensavamo di essere perduti.

Gli ultimi a vederli vivere” diventa allora un film magico e misterioso. Mentre si fa sempre più vicino alla quotidianità, intesa come successivo passaggio da una finestra all’altra, ne spalanca una nuova, proprio nel momento in cui si chiude. 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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