giovedì, Maggio 2, 2024

Hybris di Giuseppe Francesco Maione: la recensione

Cannes o non Cannes, il cinema nostrano si sta ridestando e lo dimostrano anche produzioni coraggiose, sanamente sfrontate, internazionali ma a firma italiana come “Youth” o “Il racconto dei racconti”. Quest’ultimo in particolare rappresenta un’incursione nel cinema di genere, tra il favolistico e il fantasy, tra Game of Thrones e la tradizione grimmiana (o per l’appunto tutta italiana: Basile) il cui coraggio è già, in sé, un grande risultato.

Suona quindi come una buona notizia l’uscita in sala di questo Hybris, «supernatural-thriller» diretto dal ventunenne Giuseppe Francesco Maione, scritto e prodotto dal ventottenne Tommaso Arnaldi e realizzato da una troupe interamente under 30. Malgrado l’anagrafe non sia un valore, un prodotto del genere emana un’aura di vitalità e speranza.

L’idea alla base del film è dichiarata: “La casa” (1981) di Sam Raimi. Stessa «cabin in the woods», anche se la foresta è laziale, stesso sparuto drappello di giovinotti alle prese con entità dell’altro mondo. Analogo senso di claustrofobia e parossismo, stessa moria dei protagonisti. Ne resterà uno solo. A ben vedere, però, le somiglianze finiscono qua. Lo stile di Maione non ci prova nemmeno a emulare il grottesco liberatorio e anale di Raimi, e resta dalle parti del più sobrio «supernatural-thriller» a bassissimo budget, più interessato a inquadrare bene i volti e a creare una tensione all’acqua di rose, non spregevole ma forse un po’ troppo estetizzante, più adatta al pomeriggio di una rete Mediaset che alle grandi emozioni della sala cinematografica.

Proporre una versione italiana de “La casa” nel 2015, quando in televisione sta per arrivare il ciclone “Ash vs Evil Dead” è astuto ma non descrive propriamente il film, che si ciba molto di più di elementi blattiani (possessioni, oggetti-feticcio, demoni) e argentiani (i disegnetti infantili grondanti nefandezze). Il New Horror è lontano anni luce, e lo stesso vale per il recente horror italiano sciamannato (Manetti bros., Zampaglione). Maione e Arnaldi puntano tutto su un concept cristallino e su una confezione professionale garantita dalla fotografia di Matteo Bruno, dal montaggio di Giovanni Santonocito e dalla scenografia labirintica di Gaspare De Pascali.

Altri due appunti a naso torto: la recitazione in romanesco potrà andar bene in rete ma non in sala, e il titolo è bellissimo ma non c’entra nulla con la trama. Fatta la tara, resta un film ben confezionato, con alcune scene memorabili e un’ultima inquadratura (dopo i titoli di coda) da applauso. Rilanciare l’horror italiano nel 2015? Questa, sì, è hybris di quella buona. Daje.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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