lunedì, Aprile 29, 2024

La Febbre dell’oro di Charlie Chaplin di nuovo in sala: la recensione

Nell’era del tridimensionale, del motion capture e della ricerca costante del sensazionale, capita ancora che un vecchio film muto in bianco e nero del 1925 riempia le sale cinematografiche e susciti nel pubblico piccole, grandi emozioni. Capita soprattutto quando il regista si chiama Charlie Chaplin ed il film in questione sia una delle pietre miliari della storia del cinema.

Grazie al restauro digitale realizzato dalla Cineteca di Bologna per i 100 anni dalla nascita del personaggio di Charlot, La febbre dell’oro torna sul grande schermo. Sono tante le considerazioni che andrebbero fatte di fronte ad un film che confermò, dopo Il monello e La donna di Parigi, il talento artistico di un regista destinato a lasciare un segno indelebile non solo nel cinema, ma in tutta l’arte del XX secolo. Inutile soffermarsi troppo sulla trama conosciuta da tutti (o quasi), che racconta le avventure di un cercatore d’oro nelle fredde terre dell’Alaska. È più utile invece evidenziare due aspetti che accompagnano e completano la visione del film; il primo è sull’importanza del luogo in cui si realizza lo spettacolo filmico, la sala cinematografica; la seconda è interna al cinema chapliniano e riguarda il significato che il regista attribuisce ad alcuni tratti ricorrenti della sua arte visiva.

Il primo aspetto, quello della sala, parte dalla confutazione dell’idea di Walter Benjamin secondo cui il cinema crea nello spettatore una percezione distratta. Di fronte alle immagini de La febbre dell’oro che scorrono sullo schermo, la sala si riappropria della sua aurea mitica, partecipa attivamente all’universo diegetico. È un’esperienza performativa che dimostra l’importanza della sala nella fruizione filmica e l’impossibilità di immaginare un futuro del cinema al di fuori di essa. Non è questo un elogio alla tradizione, è soltanto la constatazione che il classico apparato della visione filmica ha sempre un ruolo rilevante perché, a livello emozionale, restituisce sensazioni che altre forme di ricezione non garantiscono.

Il secondo aspetto apre una riflessione sul significato sempre attuale del cinema di Chaplin. Riso e pianto. Poesia e dignità degli ultimi. La poetica chapliniana si caratterizza per una miscela esplosiva di comicità e umorismo. La comicità interviene nello stravolgimento canonico dell’ordinarietà, nell’evento che destabilizza la normalità. L’inconsueto agisce sul consueto, in un contesto che, comunque, mantiene ancora la sua natura denotativa. Al contrario l’umorismo è manifestazione del connotativo, è lo strumento attraverso cui, nel cinema, le immagini avviano un processo di riflessione nello spettatore. Il film è un susseguirsi di episodi nei quali la comicità lascia spazio all’umorismo, ad una valutazione più intensa su ciò che lo spettatore sta vedendo. Come non pensare alla celebre sequenza in cui Chaplin, divorato dalla fame, cuoce la sua scarpa: una situazione drammatica sfocia in una trasfigurazione comica, con la stringa che diventa uno spaghetto e la suola un piatto prelibato; ma non perde per questo il suo significato più profondo, nella rappresentazione chiara ed efficace della miseria e della povertà.

Cinema visivo, quello di Chaplin, ma come abbiamo visto, anche molto di più; c’è innanzitutto la volontà di schierarsi dalla parte dei deboli, degli ultimi, di denigrare ogni forma di autorità e di coercizione, sia essa rappresentata dal più terribile dei dittatori, sia essa con le effigie del semplice poliziotto di strada. E poi, aspetto centrale, c’è il rapporto con la tradizione letteraria e visiva. Il cinema di Chaplin attinge a piene mani alle convenzioni dei generi cinematografici più popolari e conosciuti (slapstick, melodramma, cinema sentimentale); schemi riconoscibili e facilmente accessibili, che Chaplin carica di significati ulteriori. La struttura portante dei suoi film parte quindi dalla tradizione per rovesciarla e arricchirla di prospettive nuove, che spesso si legano alla componente politica e sociale dei suoi messaggi, che fa da contraltare alla comicità della figurazione.

 La febbre dell’oro non fugge a questa forma: la suspense, tipico espediente della letteratura filmica popolare, fa da collante ad una vicenda che si costruisce attorno a schemi frequenti, a sequenze comiche che, unite assieme, costituiscono il narrato. Lo stesso Chaplin ha ammesso che, in partenza, mancava un soggetto e che la storia si costruiva man a mano che la sua creatività sviluppava le situazioni comiche. Come nella miglior scuola della commedia, che ha come maestri i drammaturghi greci e come discepoli Goldoni e Moliere, l’equivoco è il motore di una storia che apparentemente sembra affidarsi alla casualità e all’imprevisto; in realtà l’equivoco chapliniano è strutturato secondo un ordine che apre vari tasselli, secondo un quadro organico che ha punti di riferimento ben precisi e identificabili nei temi centrali del cinema di Chaplin: l’avidità, l’importanza del denaro nelle relazioni sociali, la dignità degli ultimi, la ricerca costante della felicità. Il tutto con quella semplicità, con quella trasparenza della rappresentazione che eleva l’arte chapliniana ad una delle espressioni più nobili del classicismo novecentesco.

Michele Nardini
Michele Nardini
Michele Nardini è laureato in Cinema, Teatro e produzione multimediale all’Università di Pisa e ha alle spalle un Master in Comunicazione pubblica e politica. Giornalista pubblicista, sta maturando esperienze in uffici stampa e in redazioni di quotidiani, ma la sua grande passione rimane il cinema

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