domenica, Aprile 28, 2024

Senza Lasciare traccia di Debra Granik: l’approfondimento

Io non voglio né uccidere né essere ucciso, ma posso prevedere circostanze nelle quali tutte e due queste cose potrebbero essere inevitabili. La società conserva la cosiddetta pace all’interno delle proprie comunità, compiendo ogni giorno piccole azioni violente. Consideriamo il poliziotto con lo sfollagente e le manette! la prigione! la forca! […]. Quello che desideriamo e speriamo è di vivere sicuri, ai confini di questo esercito provvisorio“.
Le parole di Henry David Thoreau tratte dalla lettura del 30 ottobre 1859 a Concord, presso la First Parish Meetinghouse e pronunciate in difesa del raid di John Brown contro Harpers Ferry, sono un esempio di disobbedienza civile che non rinuncia alla necessità del linguaggio e dei metodi bellici. Introduciamo alcune riflessioni sul nuovo film di Debra Granik con questa idea di resistenza, come reazione all’abuso di citazioni tratte da “Walden”, per lo più copiaincollate dall’incipit della pagina Wikipedia dedicata al noto volume di memorie dello scrittore statunitense e utilizzate per giustificare una tesi asfittica e superficiale, rilanciata da un buon numero di recensioni pubblicate in Italia.

La wilderness descritta dalla regista del Massachusetts segue apparentemente alcune suggestioni trascendentaliste attraverso il percorso radicale di Will, il personaggio interpretato da Ben Foster che ha scelto di conciliare materia e spirito atraverso il contatto e l’unità con la Natura.  Insieme a Tom, la giovane figlia interpretata da Thomasin McKenzie, l’uomo vive in mezzo alla foresta che costituisce il grande parco naturale vicino a Portland, mangia i frutti che il terreno gli offre mentre cerca di restituirgli il favore rispettandone il ciclo con una coltivazione temporanea, fulminea e in continuo movimento. Granik filma questa famiglia essenziale nel radicamento sensoriale alla terra, senza affidarsi alla parola e riducendo qualsiasi riflessione filosofica alla materialità cruda di una prassi di sopravvivenza. 

Will è un veterano la cui storia bellica affonda nel mistero delle sue scelte, ma che conserva  segni e strategie della tattica militare nel modo in cui affronta la fuga dalla modernità. Non sono solamente le continue esercitazioni allestite nella forma del gioco, per temprare lo spirito di adattamento della figlia in caso di necessità, ma anche il confronto asimmetrico con la città che preme dai margini, luogo di transito sfruttato nei momenti difficili e allo stesso tempo zona dello spossesamento dal proprio habitat.

Le parole di Peter Rock, autore di  “My Abandonment“, il romanzo da cui Debra Granik ha tratto il suo film, definiscono la complessità di questo contrasto che mantiene la guerra al centro della relazione dell’uomo con la natura. Nel confessare le fonti della sua ricerca narrativa, oltre alla storia di un padre e di una figlia “dispersi” volontariamente nelle foreste dell’Oregon, dove per quattro anni, fino al 2004, ci avevano vissuto, cita le opere del naturalista Tom Brown, Jr. e indietro nel tempo quelle di Emerson e di Thoreau. Proprio riferendosi a quest’ultimo, Rock pone l’accento sulla vulgata che descrive il filosofo americano come un recluso amichevole e gentile, interpretazione che può cambiare totalmente di polarità se del suo pensiero si evidenziano le caratteristiche misantropiche e di aspro distacco dalla società organizzata. 

Senza lasciare traccia,  l’espressione, può richiamare certamente la definizione quasi “poetica” del National Wilderness act del 1964, nella sua controversa interpretazione federale, dove  “la natura selvaggia, in contrasto con quelle zone in cui l’uomo e le sue opere dominano il paesaggio, è riconosciuta come un’area in cui la terra e la sua qualità vitale sono libere dall’uomo e dove l’uomo stesso è un visitatore che non rimane“, ma anche la necessità di resistere al controllo istituzionale di questi stessi confini, rivendicando con-tro il preservare che separa la natura dall’uomo,  la necessità della propria invisibile esperienza come in un’azione di guerra dove si deve smantellare continuamente l’accampamento, riconfigurare il proprio assetto senza abituarsi al conforto di un luogo riconoscibile.

Le necessità di Will diventano quelle di un prigioniero di guerra, quando gli viene proposta una soluzione stanziale, che gli consenta di sentirsi parte di una comunità sociale e religiosa, che permetta alla figlia di andare a scuola e che infine renda più industrialmente tollerabile la relazione con le risorse naturali. 
Che la Granik abbia pensato all’immaginario cinematografico bellico, ci è sembrato palese e allo stesso tempo sorprendente, nella splendida sequenza del test psicologico a cui viene sottoposto Will. A dispetto della gentilezza mostrata dagli operatori, la violenza sottesa è quella degli accertamenti attitudinali nell’esercito o nelle accademie militari, filmata con quella distanza luminosa e accecante che ricorda i momenti di cattività nel cinema di Alan Clarke, dove l’abuso emerge proprio nei luoghi istituzionali preposti al recupero e all’accoglienza. 

Senza assorbire tutto il senso del film, la relazione mai riconciliata con le basi dell’organizzazione comunitaria, riflette le scelte e le azioni di Will. Queste, con un sottile slittamento di senso, tracciano un confine tra i due volti di un fondamentalismo opposto e palindromo, entro il quale emergono le necessità identitarie di Tom.
La simmetria con Winter’s Bone, il precedente lungometraggio della Granik, risulta evidente per le modalità con cui l’autrice americana affronta il doloroso percorso di formazione di due giovani donne senza riferimenti materni forti se non quelli di un contesto naturale ostile, nel tentativo di rinascere oltre l’eredità patriarcale, ma diventa presto qualcosa di molto diverso, operando una riduzione estrema della cornice “nera” e spostando tutta la tensione altrove, a fianco di quella dimensione invisibile che è propria di una natura imprevedibile e indifferente. 

Non è un caso, crediamo, che la notevole prova della McKenzie, sia il rovescio di quella affrontata da Jennifer Lawrence. Due fisicità che si esprimono diversamente e che la Ganik evidenzia nel primo caso attraverso la sofferenza e la fragilità del corpo, i piedi nudi spaccati dal freddo, la relazione dolcissima con il mondo animale, lo spirito libero e randagio che si concilia con la purezza di un cane o l’inoffensiva potenzialità letale di una comunità di api. 

Uno sguardo sul mondo che include quello di Will, senza la necessità di superarlo nella diversità empirica. Alla guerra di Will, senza uscita e allo stesso tempo fatta di continue uscite dallo scontro culturale a cui ci ha abituato il cinema americano, da “Southern Comfort” indietro nel passato, Tom oppone un punto di vista che cerca una diversa soluzione al rifiuto della contemporaneità, trovando in una comunità essenziale la scansione di un tempo rituale e atavico che dialoga con la natura su un altro livello.
Più del Thoreau di Walden, con i mezzi di un cinema scarnificato da un occhio che guarda la terra e quasi mai verso il cielo, vicino per certi versi alla poetica degli spazi di Kelly Reichardt,  sembra che la Granik abbia seguito il controverso percorso di formazione del trascendentalista mai riconciliato, quando a vent’anni scriveva di avere una profonda comprensione per la guerra, per come scimmiotta l’andamento dell’anima. 
Senza lasciar traccia, la separazione tra Will e Tom diventa a un certo punto l’unico gesto necessario per la sopravvivenza del (loro) mondo, nell’armonia degli opposti.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi

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