sabato, Ottobre 5, 2024

Tangerines – Mandarini di Zaza Urushadze: la recensione

“Questa guerra, chiamata ” la guerra degli agrumi “, è una guerra contro i miei mandarini!”.
Parla Margus (Elmo Nüganen) proprietario di una fertile piantagione stracolma di succosi mandarini a rischio marciume. La guerra non risparmia braccia che un tempo servivano per cogliere i frutti, se pure si riuscirà a salvare qualcosa dopo non resterà che scappar via, verso il nord.

Ivo (Lembit Ulfsak) è il vicino falegname che continua, caparbio, a preparare cassette per il raccolto. La famiglia è già partita ma lui no, e il finale rivelerà la ragione profonda del suo restare, solo, in quel luogo.
1992, infuria la guerra russo/georgiana – cecena in Abkhazia, regione a nord-ovest della Georgia. Morte e distruzione dilagano in uno di quei conflitti dell’Oriente europeo di cui fatichiamo a seguire origine, sviluppo e parti in causa, ne verifichiamo solo la violenta recrudescenza a intervalli regolari.

I villaggi dell’enclave estone stanziata da secoli in quei luoghi si sono svuotati di abitanti, espatriati verso i luoghi d’origine, nei freddi territori del nord. La caduta dell’impero sovietico ha ridisegnato confini e riacceso nazionalismi, finora solo sedati dalla mano dura del regime. Si combatte per la terra, per la fede religiosa, per il primato della propria etnia, si muore se si parla un’altra lingua da quella dell’uomo col fucile di fronte.
Film teso, duro come una lama d’acciaio, quasi aristotelico nella sua unità di luogo e di azione, dilata solo di poco l’unità di tempo, qualche giorno, il necessario perché le ferite cicatrizzino e le forze tornino, anche se per morire davvero, stavolta.

Tutto declinato al maschile, quattro i protagonisti di un breve incontro, pochi giorni nella casa di Ivo, chalet di legno e pietra fra alberi ad alto fusto e meravigliosi spazi di infinito silenzio. Due uomini di pace, Ivo, l’anziano estone rimasto in Georgia e Margus, il vicino che progetta di partire dopo il raccolto, entrano in rotta di collisione/incontro con due uomini di guerra, Nika (Mikheil Meskhi) georgiano, cristiano, attore di teatro in tempo di pace e Amhed (Giorgi Nakashidze), ceceno, musulmano e mercenario per mantenere la famiglia.

Se i termini di un conflitto inter-etnico difficile da decifrare sfuggono, quello che è molto chiaro è l’odio feroce che separa Nika e Amhed, per una beffa del destino finiti nella stessa casa dove hanno trovato rifugio e cure per le loro ferite.
Ivo è il cardine della storia, intorno alla sua pacata saggezza si coagulano tensioni estreme sempre sul punto di esplodere. Nika e Amhed sono impregnati di odio reciproco, figure simbolo di una condizione che è quella di intere nazioni travolte nel processo storico che ha segnato quelle aree geografiche.

Parole come ceceno, estone, abkhazo, caucasico, russo, sovietico, georgiano, cristiano e musulmano risuonano nello spazio umile di una casa dove s’indovina un passato di affetti (le foto sulla credenza fra cui spicca quella della bella, giovane nipote di Ivo), di lavoro operoso e costruttivo, di calore famigliare. Quelle parole appartengono ora ad un vocabolario di guerra, bisognerà restituire il giusto valore al loro significato perché cessino di essere messaggere di odio e di morte.
E’ ciò che ottiene Ivo, con sobrietà e sottile finezza, quella dell’uomo che brucia di verità e chiama le cose con il loro vero nome. A poco a poco porterà i due nemici ad una consapevolezza impensabile prima, quella di essere innanzitutto uomini appartenenti alla stessa specie.

Poco importa se gli snodi narrativi faranno prendere ai destini individuali strade comunque tragiche.
C’è, nella storia dell’uomo, l’imponderabile, l’imprevisto, la zeppa nell’ingranaggio che fa virare altrove quello che poteva essere un lieto fine. Ciò che avviene nei 90 minuti della messa in scena è molto più importante di un finale consolatorio, è il rito sacro della vita che si compie, il suo senso che torna.

E se i conflitti a fuoco continuano a deflagrare improvvisi, se sangue e morte marcano ancora lo spazio e il tempo degli uomini, se la ferocia rozza e crudele torna a prevalere su un’umanità faticosamente riconquistata e dallo schermo “alita in platea un fiato gelato” (Joseph Roth, L’Avventuriera di Montecarlo, scritti sul cinema 1919- 1935 , Adelphi, 2015) che impedisce di abbandonarsi alla bellezza degli scenari naturali, basta una chitarra malinconica che semina pochi accordi ed entra in comunione piena con il personaggio centrale a ricordarci che, alla fin fine, quelle che contano davvero sono le ragioni dei mandarini.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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