venerdì, Aprile 26, 2024

Il sole dentro di Paolo Bianchini

Particolarmente apprezzato dalla comunità cinefila per una serie di film di genere girati fra gli anni ’60 e ’70 (per citarne alcuni dei più noti: Hipnos – Follia di un massacro, 1967; Dio li crea…io li ammazzo!, 1968; Devilman story, 1969), il versatile Paolo Bianchini ha proseguito la sua carriera registica in ambito pubblicitario per approdare infine sul piccolo schermo. Non sono mancati occasionali ritorni in sala, come ad esempio La grande quercia (1997), film in cui si poteva rintracciare un interesse specifico per il mondo dell’infanzia e le sue problematiche (si assumeva il punto di vista dei più piccoli per raccontare le ultime battute della seconda guerra mondiale nell’Alto Lazio): una vocazione che ha trovato possibilità di sbocco pratico, diretto e operativo quando nel 2002 Paolo Bianchini è diventato Ambasciatore Unicef.
Sulla stessa linea, ovvero dalla parte dei bambini, è Il sole dentro: progetto dichiaratamente didattico, mirato alla sensibilizzazione, ma al contempo fatalmente schiacciato dall’imperativo della pubblicità progresso che  preclude qualsiasi spiraglio di libertà espressiva, rischiando a più riprese di scivolare nella retorica da oratorio parrocchiale. Ci sono due storie parallele di viaggi della speranza: uno tratto da uno straziante fatto di cronaca risalente al 1999, l’altro d’invenzione e dal sapore fiabesco. Nel primo Yaguine e Fodè, due adolescenti guineani, si introducono nel vano carrello di un aereo diretto a Bruxelles, nel tentativo eroico di consegnare una lettera a nome di tutti i bambini africani indirizzata “Alle loro Eccellenze i membri e responsabili dell’Europa”. Nel secondo la rotta s’inverte, dall’Europa all’Africa: Thabo (Fallou Kama), un baby calciatore immigrato, viene subdolamente abbandonato dal mister in un autogrill perché non si è rivelato un asso del pallone, per cui, abbattuto e confuso, non vede altra scelta che ritornare al villaggio natale, la sconosciuta località N’Dula. Uno dei suoi compagni di squadra, però, lo “scugnizzo”  barese dal cuore d’oro Rocco (Gaetano Fresa), non ci sta: si mette sulle sue tracce, lo trova e, dopo aver subito l’ennesima razione di botte dallo zio a cui è affidato, decide di lasciare anch’egli l’Italia per compiere questo viaggio insieme all’amico, convinto che  “la casa non è il luogo in cui nasci ma dove ti vogliono bene” e dunque alla ricerca di un calore affettivo sempre desiderato e mai ricevuto. Se c’eravamo abituati al deserto come teatro di disperazione per gli avventurieri improvvisati, Thabo e Rocco lo attraversano allegri e spensierati, fra un palleggio e l’altro col loro fedele pallone (tra i finanziatori figurano anche FIGC e Istituto per il Credito Sportivo), nell’attesa delle provvidenziali e immancabili comparse di un affabile beduino, poi di un ex missionario dai modi spicci ma assai premuroso (Padre X, interpretato da Francesco Salvi) e infine di una  jeep dell’Unicef, che trasporterà i due ragazzini alla loro “terra promessa”. La fragilità più evidente de Il sole dentro risiede proprio in questa seconda storia, in cui si accavallano situazioni poco credibili, con un registro incerto tra fiaba e realtà. La cinepresa inciampa spesso in zoomate un po’ approssimative, tentando il riscatto in effetti “poetici” piuttosto convenzionali (Rocco e Thabo distesi e protetti dall’abbraccio di un albero incurvato verso il suolo), all’interno di un costrutto innegabilmente di matrice televisiva.
Non ho puntato all’estetica cinematografica“, ha detto Bianchini. “Ho anzi voluto fare un passo indietro, raccontando frammenti di storie vere che si trovano unite nei due personaggi”. Siamo sicuri, però, che un film costruito a tavolino, così sordo alle questioni di linguaggio visivo e di narrazione, abbia chances di inocularsi nelle fibre emotive e cognitive dello spettatore? A Bianchini va indiscutibilmente riconosciuto l’impegno nella diffusione di nobili valori umanitari; rimane però il rammarico per una forma di racconto e un impianto stilistico non all’altezza degli intenti. Un sole che resta, per l’appunto, dentro.

 

Diego Baratto
Diego Baratto
Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.

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