martedì, Aprile 30, 2024

Mr. Beaver di Jodie Foster (Usa, 2011)

E’ un film doloroso e tragico il nuovo diretto da Jodie Foster, a più di quindici anni di distanza da Home for the holidays, la sua penultima esperienza dietro la macchina da presa. Mr. Beaver, scritto dal quasi esordiente Kyle Killen, introduce segni di complessa lettura nel guscio di una commedia famigliare, sin da quando Walter Black (Mel Gibson) osserva, disteso sul letto, un cretto sul soffitto che a causa dell’umidità sarà probabilmente destinato ad allargarsi. E’ su questa lenta esfoliazione della superficie che la Foster costruisce un racconto oltre le lusinghe della scorciatoia corale, collocando in profondità l’osservazione sul peso ereditario degli affetti e con un senso dell’inquadratura cosi ricco da rivelarne quasi sempre un punto dove sia possibile uscire, sfondare il quadro, oltrepassare l’immagine. E’ la cartina geografica che Porter, il figlio di Walter (Anton Yelchin), utilizza per coprire una crepa nel muro; è quella stessa crepa, ingigantita dal senso di inadeguatezza che il ragazzo sperimenta nei confronti di un reale inafferrabile, tanto da spingerlo a prendere a testate la parete fino a sfondarla completamente; è quell’apertura attraverso cui può gettare il suo sguardo oltre il perimetro casalingo, una fessura che scoperta successivamente da Walter, accoglierà la sua di testa, in un riconoscimento di se stesso e del figlio tra appunti, tracce verbali, segni grafici, postit, e una ferita aperta nel muro. Quello di Jodie Foster in questo senso è un lavoro molto più complesso rispetto alla riflessione sulla maschera che Mr. Beaver sembra innescare sul corpo e sul volto di Mel Gibson, attrattore principale di questa intima tragedia di formazione; da una parte il pupazzo sembra assorbire tutti gli elementi simbolici in una prova perturbante che la regista Americana assegna a Gibson lasciando alle possibilità dell’attore tutta la libertà performativa nell’incredibile verosimiglianza del gioco, ovvero in quel contatto senza mediazioni che il ventriloquo stabilisce con un uditorio disposto ad accordare alla voce una valenza profondamente interiore, tanto che il primo interlocutore ad accettare Mr. Beaver senza percepirne il senso di sdoppiamento e di malattia è Henry (Riley Thomas Stewart), il più piccolo della famiglia, l’unico in grado di esercitare lo sguardo come stupore infantile; ma è anche lavorando su questa ambivalenza del daemon che la Foster sembra alludere ad un livello più complesso rispetto alla semplice immagine riflessa, avvicinandosi a quello stato di trance, o di transito, che coglie il corpo attoriale in un continuum irrisolto tra esibizione e possessione.

Vengono in mente gli studi Americani di Leigh Eric Schmidt che mettono in relazione religione e Ventriloquismo nel passaggio da animismo a naturalismo, ovvero nel momento in cui il Ventriloquo diventa nella società del mercato moderno un maestro di simulazione attento alla verosimiglianza del trucco dimenticando la forza sciamanica del suo talento in grado, in un tempo ancora “primitivo”, di entrare in contatto con un tumulto di voci interiori.

Che la Foster alluda, anche con un feroce distacco ironico e agnostico, a questo contrasto, lo si avverte attraverso gli inserti di un induismo per le masse che ammicca dalla fluorescenza televisiva di Kwai Chang Caine, il monaco esperto di arti marziali interpretato da David Carradine, più di una volta sullo sfondo come mentore del percorso d’illuminazione rovesciato di Walter Black. In questo senso il corpo/volto di Gibson e l’occhio della Foster spingono la performance verso una zona radicale di soppressione del simulacro, molto simile al continuo grattare della superficie di Antonio Rezza, mi vengono in mente le auto-amputazioni di Elio in uno degli episodi più belli e dolorosi di Escoriandoli, dove il corpo dell’attore è continuamente un pezzo, un brandello, altro da se.

Mr. Beaver è ricchisimo di segni che spingono a riconoscerne le origini in una molteplicità di appartenenze; come un atto progressivo di esfoliazione sull’identità di una famiglia, o più semplicemente come una scatola di legno riempita di balocchi e fotografie del passato, il film di Jodie Foster apre un vortice di senso che con la stessa forza di un film di Atom Egoyan, dove i segni materiali del tempo collidono e mutano posizione in un multiverso cognitivo di proporzioni intime e collettive, innesta il percorso di riconoscimento dell’immagine, tra memoria e oblio, in quel corpo per niente decrepito della commedia di tradizione Americana, quasi a recuperarne più storie, da Hawks a Coppola, fino a Rob Reiner.

In fondo cos’è se non un’immagine della possibilità e allo stesso tempo di grande sintesi cinematografica la sequenza struggente e potentissima che coglie Porter smarrito davanti al graffito disegnato da Norah (Jennifer Lawrence); in quei segni c’è il residuo di più storie, tra passato e futuro, che Porter non sa ancora come interpretare; sarà Norah a dirgli di portare a casa tutto il disegno per poterlo esaminare con più attenzione; Porter comincerà a staccare letteralmente il graffito dal muro, aprendo improvvisamente un’altra finestra, o un altro occhio.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi

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