venerdì, Marzo 29, 2024

Prometheus di Ridley Scott: le immagini hanno una qualità trans-apparente

Prometheus di Ridley Scott continua a dividere pubblico e critica

Nonostante l’ottimo risultato al botteghino, Prometheus continua a dividere critica e pubblico sulla base di quell’eredità genetica con il primo Alien girato da Ridley Scott nel 1979, da cui il regista inglese si sarebbe allontanato tracciando un percorso non lineare. È la relazione tra l’origine e il dispositivo seriale a saltare in aria, con un procedimento che non è certo legato alla costruzione di un capitolo mancante, un ponte tra i due film,  ma al contrario orientato a combinare un insieme complesso di metalogismi che invece di rovesciare semplicemente tutta l’escatologia mitologica della saga, si innestano sulla carcassa originale germinando una serie infinita di possibilità .

Gli Alien di Cameron, Fincher, Jeunet reinventavano il modello “cancerogeno” del primo episodio rendendo sempre più vicina la relazione tra interno e esterno, corpo e set, spazio contaminato e agente del contagio, fino ad ipotizzare, in Alien Resurrection,  la riproduzione degli Xenomorfi per partenogenesi in un avvitamento tra il DNA di Ripley e una stirpe che appunto proveniva da una  morfologia “altra”; la natura parassitaria dell’Alieno si sovrapponeva, nell’episodio diretto dal regista Francese, ad un’idea estrema di maternità, confermando un movimento concentrico dell’intera serie, oltre il quale non era più possibile spingersi se non per sottrazione.

Dovessimo perder tempo con il giochino che infervora in rete alla ricerca di tutte le connessioni possibili con un franchisee che a Scott non interessa più, potremmo dire che Prometheus si colloca , in una cronologia finzionale,  circa una ventina d’anni prima del viaggio della Nostromo, con la scoperta dei due archeologi Elizabeth Shaw (Noomi Rapace) and Charlie Holloway (Logan Marshall-Green) di un pittogramma di 35,000 anni raffigurante una comunità umana colta nell’atto di adorare una figura di dimensioni gigantesche mentre questa indica una costellazione, configurazione scoperta in una serie di rappresentazioni simili disseminate per il globo e che probabilmente Scott e lo sceneggiatore Damon Lindelof (Lost, Cowboys & Aliens) hanno desunto da tutta quella letteratura che fa capo ai testi dello scrittore svizzero Erich von Däniken, in bilico tra  archeologia, fantascienza e misticismo.

Prometheus è l’astronave in viaggio verso il sistema planetario raffigurato nel pittogramma e conduce, in una missione voluta e finanziata dalla Weyland Corporation, i due archeologi, Meredith Vickers (Charlize Theron) rappresentante delle industrie Weyland, il capitano Janek (Idris Elba) e il suo equipaggio ed infine David (Michael Fassbender) un androide che Scott, insieme allo stesso Fassbender ha modellato pensando al Dirk Bogarde de “Il Servo”, al Peter O’Toole di Lawrence D’arabia, che David guarda ripetutamente assorbendone frasi e posture, e al Bowie de L’uomo che cadde sulla terra, film per il quale Nicolas Roeg aveva pensato inizialmente proprio a O’Toole, segno di una vertiginosa stratificazione dell’occhio che attraversa tutto Prometheus, come vedremo, su più livelli.

In una sequenza che deve molto al sin troppo sottovalutato Minority Report di Steven Spielberg, la dottoressa Shaw e il suo compagno mostrano agli ospiti dell’astronave la loro scoperta con una serie di ologrammi modificabili al tatto, è l’inizio di una storia delle immagini che sembra avere molti punti di contatto con l’auto-similarità delle scansioni di Rick Deckard, e che sposta la dimensione tecnica dell’illuminazione di Jordan Croneweth in Blade Runner su un piano che non è solo mentalmente tridimensionale; la proiezione successiva dove compare il fantasma di Peter Weyland (Guy Pearce) osservato attraverso la simulazione di uno spazio incongruo, tra landscapes immaginari e la persistenza materiale del set, chiarisce la posizione di Ridley Scott rispetto all’uso del 3D, attaccato praticamente ovunque come un giocattolino invisibile tutto sbilanciato a favore di una profondità contemplativa senza nessun effetto di particolare rilevanza tra quelli che si presume debbano essere scagliati verso la retina;  a cosa serve? si sono chiesti i detrattori più indispettiti.

Ci siamo soffermati più volte sul cinema della terza dimensione, delineando una serie di percorsi possibili dove le intuizioni più stimolanti provenivano dal tentativo (il più delle volte disperato) di coinvolgere l’occhio nella pratica di un montaggio attivo tra i diversi piani del visibile, tanto che ci erano sembrate fallimentari le applicazioni della visione stereoscopica ancorate alla tirannia delle leggi ottiche (il comunque splendido Toy Story 3) e al contrario, potentissimi quei tentativi di liberarsi di una funzione diegetica comunemente accettata, nella relazione tra fuoco e fuori fuoco, in una serie di produzioni legate alla Street Dance (il notevole Step Up 3D di Jon Chu). Per Ridley Scott il 3D è qualcosa che si avvicina maggiormente alle “installazioni tattili” degli Zapruder per trattamento dello spazio ma che non rinuncia ad un’impossibile ipertrofia immaginale; Prometheus è anche una storia dell’occhio che raccoglie i dispositivi della rappresentazione bidimensionale e li dispone su nuovi livelli di fruizione interattiva; non sono solamente i Pittogrammi riprodotti in una dimensione virtuale tutta a fuoco in profondità, ma anche  i ricordi “filmati” di Elizabeth Shaw, dove emerge quello, assolutamente geniale, del padre, realizzato come se fosse una via di mezzo tra un formato “home video”, quindi ancora in contatto con la “retorica” visiva del ricordo, e il sistema delle lenti lenticolari, lo stesso delle vecchie cartoline che rivelavano uno spazio in profondità con l’inclinazione della luce, lo stesso replicato da Brumby Boylston per New Killer Star, il video diretto per David Bowie e tratto dal suo ultimo Reality, lo stesso che AU Optronics sta studiando in questi mesi per il lancio dei nuovi pannelli 3D auto-stereoscopici che dovrebbero permetterci di eliminare la cornice degli occhiali.

È allora chiara, si diceva, la consapevolezza di Scott nel tentativo di fregarsene dell’applicazione industriale del tridimensionale verso un’idea del 3D come trasparenza, o meglio accora trans-apparenza, ipotesi dell’occhio o del corpo che si situa davanti e allo stesso tempo dietro alle immagini. Ecco perchè l’esoscheletro del set, che ancora conserva tracce di quello immaginato da Hans Rudolf Giger, è un relitto infestato da molteplici trasparenze, segnali fantasma (lo stesso rumore bianco dell’immagine su cui tra l’altro insiste il trailer ufficiale del film), altri piani del visibile che pur conservando sullo sfondo quella minacciosa aura necrofora, spostano la dialettica tra vita e morte, reale e virtuale al di là del fascino degli orpelli decorativi.

Questa architettura mortuaria subisce lo stesso trattamento dell’immagine-ricordo, in una distruzione spaventosa della gnosi neoplatonica, dove il rapporto tra sorgente ed emanazione viene costantemente riconfigurato; la natura-set, un rettilineo che “non può aver creato Dio”, come dice Janek durante la fase di allunaggio, viene a un certo punto esfoliato, squamato nel suo rovescio tecnologico in una sequenza formidabile che rende instabile la centralità della percezione quasi come nelle immagini filmate da  Michael Bay tra terra e cielo.

Se lo scambio palindromo e distruttivo tra creatore e creato, sembra per certi versi  riferirsi alla relazione tra replica e paternità che attraversa tutto Blade Runner, il nuovo film di Scott allude anche a certi modelli “psichici” degli anni ’70 come lo Zardoz di John Boorman, con la continua produzione di immagini del Prometheus che ricorda lo zoetropio del Vortex, la germinazione di una stirpe di schiavi, l’enorme testa cultuale che comunica la forza dello sperma, il custode del mausoleo padre dello sterminatore che distruggerà tutto il sistema religioso; oppure Generazione Proteus di Donald Cammell, con cui condivide non solo la terribile sequenza del parto cesareo, ma un’esplorazione familistica ancora più vorticosa; è una stratificazione storico-cinematografica che in Scott passa per la reinvenzione e per una diversa riallocazione, basta pensare al modo in cui il modello Kubrickiano attraversa più o meno esplicitamente tutta la sua filmografia, anche più recente.

L’immagine, e quindi anche il sistema di “citazioni”, per Scott assume caratteristiche filosofiche, nel tentativo di costruire una complessa visione gnostica che si interroghi, come la migliore fantascienza, sul rapporto tra reale e virtuale, tra corpo e autodeterminazione, tra natura e tecnologia in un continuo spaesamento della centralità dell’occhio; se c’era una possibilità ulteriore di spingersi oltre la germinazione parassitaria degli Xenomorfi, questa poteva risiedere anche nello sviluppo di un cinema del limite,  in grado di farsi carico di una metastasi percettiva nel suo dis-farsi.

È abbastanza chiaro in questo senso l’interesse di Scott per i processi di formazione e di cancellazione dell’immagine, basta pensare al continuo scambio tra esterno e interno, tra territori mappati e gli ologrammi tridimensionali che riproducono quella superficie nelle proiezioni all’interno del Prometheus, spazi tra realtà e vuoto osservati come nelle megaloscopie belliche, fino a quella bellissima contemplazione della morte nella sequenza dove Meredith Vickers guarda il volto grinzoso di Peter Weyland che si confonde con una terra già tecnologizzata.

David, che guarda Lawrence D’arabia, una storia di segreti e menzogne, miraggi e illusioni, per imparare ad essere più umano, sembra l’unico, senza il peso dell’anima, ad essere spinto da una curiosità quasi infantile per gli effetti di un sistema mutante; in una sequenza che sembra clonare un frammento Hitchcockiano, ripete una frase rubata dal suo film preferito: “Le grandi cose hanno piccoli inizi”. L’Alieno in prometheus è sempre altrove, e la sua genesi sfugge continuamente,  come la origini della  fede di Shaw, messa in abisso nel confronto dialettico con la testa di David, in una delle sequenze più astratte e potenti di tutto il film, conferma di un talento visionario ancora vivo e stimolante. Spiace che una fandom senza un briciolo di senso critico, o forse una manciata di critici con lo spirito di una fandom, sia rimasta delusa proprio dalle continue spaccature nel “testo” di  Prometheus verso due, duecento, duemila altri film possibili, senza accorgersi che la cinefilia di Scott supera i propri limiti osservando la storia di quelle immagini in una tessitura tridimensionale, dove le risposte, se ci sono, hanno una qualità trasparente.

Grazie a Maurizio Morganti, per una delle due visioni, quella condivisa, e le stimolanti conversazioni

 

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi

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