venerdì, Aprile 26, 2024

Equals di Drake Doremus: la recensione

Nome emergente della scena indie americana, il californiano Drake Doremus ambienta in un futuro post-apocalittico definitivamente alienato una sci-fiction scritta con Nathan Parker (già sceneggiatore di Duncan Jones in Moon).
A fare da collante è il tema amoroso. Dopo Like Crazy (2011) e Breathe In (2013) la love story fra i due protagonisti Nia e Silas, la coppia Kristen Stewart-Nicholas Hoult, Equals chiude  la trilogia dell’amore.
Nell’omologazione collettiva in cui Doremus immagina un’umanità che ha deciso di trovare così, eliminando i sentimenti, il suo equilibrio al riparo da guerre e disastri vari, il legame che a tratti e per chissà quale alchimia può rinascere fra umani è lo scarto imprevisto, la cellula impazzita, lo scandalo inaccettabile in un sistema prono con supina acquiescenza ai voleri di Grandi Fratelli o Piccoli Padri che siano.
Particolarmente pericoloso è dunque l’amore, fra i sentimenti quello più stravagante, nel senso etimologico del vagare impazzito fuori dal controllo sociale in quanto detentore magnifico di sconfinato potenziale eversivo.
L’intervento punitivo è pertanto immediato e definitivo, sradicare metastasi è la mission dei reparti d’igiene sociale.
Ma attenzione, ci avverte il regista, “Equals è una storia d’amore in un mondo in cui l’amore non esiste più”, dunque investe aree di riflessione ancora più ampie delle consuete interpretazioni socio-politiche e, soprattutto, vuol salvaguardare la scioltezza del tessuto narrativo.
L’ironia, lo sguardo intrusivo e dissacrante, il tocco lieve che fa intravedere in filigrana precipizi incommensurabili, sono credenziali forti del film, e anche quando il plot ha impennate ad alta tensione e l’adrenalina comincia a scorrere, l’autore insiste sul pedale della leggerezza.
Quel che accade deve scivolare nell’alveo della più banale normalità, solo così, in un rilascio lento di indizi, l’olimpica serenità di quel corpo sociale metterà a nudo la sua inconsistenza e l’equilibrio si rivelerà assolutamente falso.
Segno evidente di questa condizione di schizofrenica duplicità è l’affermazione categorica del “principio di uguaglianza”, a partire dal titolo. La perentorietà della parola apre le porte a fondati sospetti di manipolazione in atto.
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Suona a vuoto l’articolo 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo scritta nel 1948.
Il potere struttura i parametri del comportamento sociale, quella in cui Nia e Silas vivono (diciamolo pure, specchio di noi comodamente seduti a guardare nello specchio-cinema o a rileggere le pagine immortali di Orwell) è una bolla anestetizzata e falsamente rassicurante, nulla che ricordi un principio di libertà e uguaglianza.
E’ il cosiddetto The Collective, qualcosa che somiglia molto al concetto di Massa. Si tratta di una comunità di esseri umani, gli Equals, immuni da sentimenti. Automi anaffettivi, vivono in uno stato di equilibrio perfetto garantito da una sorta di lobotomizzazione indotta da meccanismi ed espedienti di varia natura di cui solo un misterioso staff dirigenziale conosce le chiavi. Giunti al grado zero della comunicazione, quel che devono fare è vivere in giorni e attività sempre uguali, immersi nella tavolozza minimalista degli spazi iperfunzionali di Tadao Ando (fra Tokyo e Osaka il numero maggiore di set, Singapore si aggiunge a tratti con la sua vegetazione tropicale lussureggiante a fare da straniante contrappeso).
Il silenzio è dominante, le note di Bach e Chopin arrivano attutite da distanze siderali ad accompagnare il risveglio, ordinate e asettiche schiere biancovestite si avviano ogni giorno al lavoro. Quasi un secolo dopo il pensiero torna doverosamente a Metropolis.

Un misterioso virus sta però minando le basi di quest’ordine. Si tratta di S.O.S, acronimo per Switched on Syndrome, malattia che risveglia emozioni e sentimenti sopiti e mai del tutto annullati. Se contagiati, questi tornano ad esplodere con rinnovato vigore. E’ così che amore e odio, paura e coraggio, rabbia, depressione e quant’altro riprendono il loro corso, minacciando di infettare la popolazione in una pandemia senza freni.
Intercettati da un efficiente servizio d’ordine, i malati sono immediatamente mandati in isolamento al Den, centro di recupero dove in realtà si va a morire. Silas e Nia lavorano per la rivista scientifica Atmos, e nello scorrere asettico di giornate tutte uguali e gesti meccanici davanti alle loro strumentazioni avveniristiche, cominceranno ad avvertire i segni del contagio.
Passano dagli occhi, i sintomi, e sono sguardi brevi, stupiti, l’amore è un pianeta che nessuno dei due conosce e lo scopriranno gradualmente, ne scriveranno la grammatica di base in un Kammerspiel che Doremus guida con esattezza geometrica e grande sensibilità.
Le difficoltà che questo amore incontrerà per sopravvivere sono il nucleo di questa mitopoiesi del futuro, un racconto tra fantasy e horror che, by-passando le ovvie suggestioni orwelliane, prefigura scenari ancora più devastanti di perdita e sconfitta.
Tornano alla mente pellicole che in vario modo e con angolazioni di volta in volta diverse, hanno ipotizzato le sorti di un mondo cloroformizzato o in procinto di esserlo. Pensiamo all’alienazione progressiva dei cinque sensi nel magnifico Perfect sense di David Mackenzie o all’evoluzione memetica che in Pontypool di Bruce McDonald mostra un’umanità contagiata dal virus verbale, con scenari apocalittici di uomini intenti a divorarsi, zombies resi tali dal tragico fallimento della capacità della parola di creare relazione tra esseri umani.
Nel finale avremmo forse preferito maggior realismo, in fondo la citazione di Shakespeare con la tragica sorte di Romeo e Giulietta autorizzava a questo. Ma poco male, a volte il destino ha strane interferenze, anche se, inevitabilmente, in chi guarda torna alla mente il desolato finale di 1984:“Winston è ormai un uomo finito. Per lui la lotta era finita. Egli era riuscito vincitore su sé medesimo. Amava il Grande Fratello”.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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