venerdì, Maggio 17, 2024

Calibro 35 – l’intervista: Ennio Morricone è la più grande rockstar vivente

Abbiamo incontrato i Calibro 35 poco prima del loro concerto del 29 novembre alla Latteria Artigianale Molloy, “piccolo” grande palco Bresciano che dopo quattro anni di attività serrata con ospiti internazionali di altissimo livello, ha chiuso per 24 mesi e riaperto il marzo scorso, ancora una volta con un’ottima programmazione. Il concerto della band è stato uno degli eventi di punta del Novembre 2013 e ha portato sul suolo Bresciano i brani dell’ultimo “Traditori di Tutti” di cui abbiamo parlato da questa parte su indie-eye.it. Dopo l’intervista  realizzata da Francesco D’Elia per indie-eye, lo scorso Giugno a Firenze, in occasione dell’evento unico intitolato  “Indagine Sul Cinema Del Brivido In Italia“, ci sembrava opportuno fare nuovamente il punto con i Calibro 35 attraverso una conversazione più specifica sul loro ultimo album, sul metodo compositivo, sulla musica dal vivo in Italia, sull’artigianato musicale che scompare e sullo scollamento dalla realtà dell’immarcescibile tedio televisivo.

Prima di parlare dell’album Traditori di tutti, vorrei aprire una parentesi su “Said”, colonna sonora che avete curato per il “polar” diretto dal francese Joseph Lefevre. Cosa mi raccontate a riguardo?

Luca Cavina – Il materiale di “Said” è stato realizzato operativamente in due, tre giorni, però in realtà noi avevamo già avuto dal regista la copia del film montata con delle musiche di indicazione e devo dire che la maggior parte del lavoro di scrittura l’ha fatta Max (Massimo Martellotta ndr.), da questo punto di vista è stato quello che ha scritto più cose.

Massimo Martellotta – C’è una cosa da dire sulla pubblicazione di “Said”. Considerato che è uscito poco tempo fa si pensa che sia un lavoro recente, in realtà è il primo lavoro di scrittura originale  che abbiamo composto. Patrignani,  il proprietario degli studi di Ennio Morricone del Forum Music Village (ex Studio Ortophonic ndr.) ci ha chiamati un mese dopo l’uscita del nostro primo disco, era dicembre 2008, e ci siamo buttati anima e corpo su questa cosa. Il progetto si è poi fermato a lungo perché il film non ha mai avuto una reale distribuzione. Dopo quattro anni siamo riusciti a convincere i produttori a farlo uscire,  per lo meno in una versione on-line,  per giustificare a sua volta l’uscita discografica. Per noi è stato un modo di dar vita ad un materiale, e quindi ad un lavoro, in cui credevamo molto. Abbiamo lavorato sodo sulle musiche per “Said” e abbiamo ideato cose molto belle, basandoci anche sull’improvvisazione dal vivo, in sincrono con le immagini, mentre alcuni pezzi “orchestrali” con strumenti come la grancassa sono stati jammati in una fase successiva,  clamoroso quanto molto stancante e solamente adesso il progetto ha visto la luce. Noi siamo proprietari di tutte le cose che facciamo, anche dal punto di vista discografico, questa era l’unica cosa non completamente nostra perché ci era stata in parte commissionata, si trattava di materiale che non potevamo far uscire autonomamente.

Enrico Gabrielli – Tra l’altro ci dicevano che neppure Morricone registra più così, ora usa un piccolo monitor. È una pratica quella di fare le cose in sincrono con l’immagine a grande schermo, che si è progressivamente persa, è stato un recupero per certi versi un po’ artigianale.

A proposito di Morricone, c’è qualche compositore italiano che vi ha influenzato o vi influenza tutt’ora? Pensavo per esempio ai lavori di Gianni Ferrio…

Massimo Martellotta – Morricone è talmente noto che è conosciuto anche da chi non è esperto di musica. Ferrio è sicuramente un autore che ha scritto moltissimo, composto e arrangiato. Credo sia meno noto rispetto Morricone.

Enrico Gabrielli – Ci sono alcune differenze. Morricone è di formazione se vuoi più classica. Ferrio è più jazz, più da brass band. Ha scritto cose enormi. Secondo la mia personale opinione, ha scritto colonne sonore per film che non sono rimasti famosi e conosciuti a livello di pubblico come è successo per Morricone con Sergio Leone. Gran parte della sua fama è legata al fatto che ha firmato musiche per capolavori del western che hanno raggiunto una fama internazionale. In quel periodo, oltre a Morricone e Ferrio, c’erano almeno altri dieci autori dello stesso spessore. Anche Bacalov, per esempio, era eccezionale ma non ha firmato musiche per film che sono rimasti nel tempo. La caratura era altissima, c’erano persone che sapevano scrivere usando linguaggi differenti e con un background “colto” da cui poter attingere. Io ho avuto modo di collaborare con “Mondo Cane” (uno dei progetti di Mike Patton ndr.) in Cile, dove abbiamo suonato la stessa sera di Morricone, e ho avuto modo di vederlo in azione durante il sound check. È una persona estremamente ordinaria, un uomo di ottantacinque anni infastidito dalle persone, ma sono rimasto molto colpito dalla sua musica e mi sono reso conto di una cosa, ovvero se la percezione che a volte si ha di Ennio Morricone è quella che sia un autore abusato, è perché ha scritto cose incredibili. É la più grande rockstar italiana vivente in questo momento.

Traditori di Tutti è il primo dei lavori pubblicati come Calibro 35 che contiene pezzi vostri invece delle consuete re-interpretazioni. Che rapporto avete con Scerbanenco e in generale con il cinema che a lui si è ispirato?

Luca Cavina – Indipendentemente da Scerbanenco, il rapporto che noi abbiamo con i vari compositori o col cinema dal quale abbiamo preso ispirazione, non ci rende degli invasati della categoria. La musica dei Calibro è in qualche modo molto pretestuosa, e intendo il termine in senso del tutto positivo. Ogni disco nasce da un pretesto a cui noi diamo organicità. Utilizziamo qualcosa di vecchio e quello che facciamo risulta fresco pur non avendo una pianificazione. Per “Traditori di Tutti” il concept del libro ci ha dato indirettamente dei paletti e sono venute fuori cose molto diverse da quello che facciamo di solito e allo stesso tempo con una coesione molto precisa.

Enrico Gabrielli – Non potevamo fare re-interpretazioni di altre cose perché il contesto non era quello. È stato quindi del tutto naturale non lavorare in quella direzione, non c’è stato un ragionamento alle spalle che ci ha portati a questa conclusione. Il concept di base non ci consentiva di fare, per esempio, un brano di Cipriani.

Fabio Rondanini – Scerbanenco è una lettura che condividiamo e di cui tutti noi Calibro abbiamo letto le cose più importanti, oltre ad essere, ovviamente, un guru delle sceneggiature di molti poliziotteschi in questione.

Enrico Gabrielli – Guru controverso. Scerbanenco è stato spesso usato come sceneggiatore suo malgrado perché con Ferrio in particolare credo ci siano stati molti screzi rilevanti;  Scerbanenco non riconosceva la qualità degli adattamenti. C’è da dire che “La morte risale a ieri sera”, tratto da “I milanesi ammazzano il sabato”, per la regia di “Duccio Tessari” è un bellissimo film. Altrimenti alcuni adattamenti dei libri di Scerbanenco sono proprio brutti.&nbsp

Ve l’ho chiesto per l’associazione che spesso viene fatta tra i Calibro e i fanatici della cultura tra il  ’60  e il ’70. In realtà, basta vedere qualsiasi vostro concerto per rendersi conto che non è esattamente così…

Enrico Gabrielli – Ormai abbiamo visto così tanti film da essere quasi degli esperti, ma siamo molto più legati ad un certo tipo di  immaginario, quindi al  “Cinema”,  più che allo stile di vita a cui potrebbe riferirsi. Siamo molto distanti da gruppi come “Montefiori Cocktail”, o da altre operazioni tipiche di quel revival lounge che era presente sopratutto in zona romagnola, dove si vestivano giacca e cravatta “in stile”  vivendo in case con le tappezzerie anni ’60. Noi non abbiamo niente a che fare con tutto questo.

Fabio Rondanini – Direi che non averci niente a che fare è la nostra fortuna in qualche modo.

Avete utilizzato strumenti come l’organo philicorda, il dulcitone e il mellotron. Questo ha dato al vostro ultimo lavoro delle sfumature particolari, che vengono percepite come maggiormente “orchestrali”. Che ne pensate?

Enrico Gabrielli – Il mellotron è uno strumento che riproduce gli archi quando non hai l’orchestra,il fatto che suoni orchestrale dipende dal fatto che è un emulatore.

Massimo Martellotta – Il mellotron è l’antenato del campionatore. Ogni tasto ha un nastro con dentro un suono, quando lo premi c’è un effetto d’archi che è interessante perché il suono sul nastro non è preciso, si capisce che richiama a quello vero pur essendo un po’ strano. La dimensione che abbiamo aggiunto non è del tutto nuova, è uno strumento che nel funk di adesso capita di sentire, per esempio nei lavori di  Medeski Martin & Wood. In realtà era un appunto di un tema che in un secondo momento avremmo voluto registrare con gli archi, poi il suono di mellotron funzionava di più perché era più strano rispetto un’orchestra vera e lo abbiamo tenuto. Gli altri strumenti sono il dulcitone che è una specie di celesta, e il philicorda che è un organetto tedesco fatto a valvole. A me piace suonare le tastiere e visto che non mi era capitato di suonarle nel disco dei Calibro, ne ho finalmente avuto l’occasione.

Luca Cavina – E’ più una questione di suono, in qualche modo Enrico, che già suonava delle tastiere, ne ha suonate delle altre con dei suoni diversi. Non è esattamente un disco in cui abbiamo fatto convivere una band con delle orchestrazioni. Sarebbe bello farlo.

Mi è capitato di leggere una frase scritta dal proprietario del posto dove suonate stasera (La latteria Artigianale Molloy n.d.r.). La frase è: “se anche lo 0,1 % di quelli che il giovedì sera stanno incollati alla tv a interessarsi di nuovi aspiranti e potenziali talenti da lanciare sul mercato, nel fine settimana andassero ad ascoltare un concerto vero, ecco, la musica sarebbe salva.“ Qual è la vostra opinione?

Enrico Gabrielli – La televisione non ha nulla a che vedere con la musica.

Massimo Martellotta – Le persone che guardano la televisione non sono quelle che vanno ad un concerto. Se c’è un fenomeno forte come quello di Chiara (Chiara Galiazzo vincitrice di x-factor nel 2012 ndr.), vedi un seguito anche ai suoi concerti. Ma sono pochi i casi in cui succede, sono pochi i casi di gente che guarda la televisione e poi va ai concerti. Ti faccio un esempio, l’anno scorso abbiamo fatto la backing band di un programma di Fabio Volo su Raitre. Uno dei motivi per cui l’abbiamo fatto, era perché pensavamo potesse esporci in qualche modo così da consentirci un po’ di ritorno di pubblico ai nostri concerti, in realtà l’uno per mille di quelli che sono venuti a vederci live erano informati del fatto che avevamo fatto la trasmissione con Volo. Se facciamo una cosa in radio rai, subito c’è un feedback di gran lunga più estensivo.

Enrico Gabrielli – La radio è un mass media che è molto legato alla gente che va ai concerti, di solito la relazione tipica è: macchina- radio. Quelli che si spostano sono persone che con più facilità vanno ai concerti. Chi guarda la televisione, e mediamente ne guarda abbastanza, lo fa perché è un appuntamento fisso. Si tratta in quel caso di una media di persone che guarda X-factor o un talent show come guarderebbe un qualsiasi programma di cucina. Non lo guardano certamente perché c’è della musica, lo guardano per via dello spettacolo, perché c’è la storia e ci sono i personaggi. Se non ci fosse X-factor quella gente non andrebbe in ogni caso ad un concerto, e guarderebbe un altro tipo di  programma.

Massimo Martellotta – In quei programmi si racconta una storia. I programmi musicali, come quelli di Renzo Arbore, avevano al centro la musica. In Speciale per voi si parlava di musica anche con un taglio molto generalista ma in maniera didattica, mentre Doc era un programma di musica; quattro minchiate e un’ora di musica. Quello sì che ti portava gente ai concerti. X-factor racconta delle storie.

Enrico Gabrielli -Tra l’altro noi avendo fatto quel programma con Fabio Volo, abbiamo avuto anche il test ufficiale da parte degli autori,  a conferma che la musica dal vivo in televisione non funziona. C’è una sorta di circolare scritta, dove si legge che non si può suonare la musica dal vivo oltre un minuto e mezzo, perché ne va dello share, ovvero perché l’attenzione cala. Puoi suonare se la musica si accompagna ad altro, come ad esempio balletti o intermezzi. Ma questo è un approccio solo italiano. Al Dave Letterman show si eseguono brani nella loro interezza, ci sono parecchi programmi in Svezia o Inghilterra che si occupano di musica e con una qualità audio inarrivabile. Questo di cui stiamo parlando è quindi un problema del tutto interno al paese. Recentemente ho scoperto un vecchio programma dove  facevano vedere un concerto integrale di un artista italiano, erano gli anni tra ’80 ’81 ’83, e i nomi coinvolti erano quelli di artisti come Finardi, Battiato o Pino Daniele. Concerti integrali in prima serata, dove il pubblico recepiva tranquillamente il fatto che il mercoledi sera televisivo era dedicato ai concerti. Certo, in Italia in quegli anni c’erano solo due canali televisivi, dove la scelta era poca, ma ho capito che questa cosa, in realtà, era un bene.

Vorrei concludere con una frase tratta da “Suonare il paese prima che cada” (Andrea Scarabelli, Milano, Agenzia X, 2011 ndr.). Fra i vari racconti ce ne è uno di Enrico. Ad un certo punto dici: “La psicopatologia del musicista classico è molto peggio di quella di qualsiasi rockstar, perché quest’ultime mantengono comunque una sorta di aderenza con la realtà, mentre i musicisti classici di alto livello sono quasi tutti scacchisti, hanno quel tipo di paranoia”.

Enrico Gabrielli – Confermo che il musicista classico è realmente così, specialmente quando parliamo di livelli importanti. Io facevo classica prima e mi sono reso conto del passaggio dalla classica alla popular music. La pop music per quanto sia underground o per quanto tu possa suonare in posti con poche persone che ti stanno ad ascoltare, ha un rapporto con la gente molto più vicino. Io mi sento più simile ad una persona che assiste ad un concerto dei Calibro, il cui “identikit” è  forse quello di una persona con cui puoi parlare di tutto. Il pubblico della musica classica è fatto di gente della media borghesia, sono logiche differenti. Se fai la musica che facciamo noi, trovi un tessuto umano più reale o perlomeno più vero.

Giulia Bertuzzi
Giulia Bertuzzi
Giulia vede la luce (al neon) tra le corsie dell'ospedale di Brescia. Studia in città nebbiose, cambia case, letti e comuni. Si laurea, diventa giornalista pubblicista. Da sempre macina chilometri per i concerti e guadagna spesso la prima fila.

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