STRFKR – Miracle Mine (Polyvinyl Records, 2013)

1611

STRFKR è l’acronimo striminzito di Starfucker, che in una dieta a base di consonanti decide di elogiare in contemporanea i Rolling Stones censurati di Starstar e i MSTRKRFT da Toronto (tutte citazioni solo nominali). La ricetta essenziale del gruppo consisteva in un connubio morbido di dance e electro-pop, con batteria suonata dal vivo ma ultrapompata, pattern ripetuti, quando capita alcuni samples delle letture zen del filosofo Alan Watts. Questo accadeva nel primo disco omonimo, dove era facile apprezzare le invenzioni psichedeliche di Myke Ptyson (il balletto svizzero di mani e piedi come sezione ritmica), la debordante ondata garage/punk di episodi alla Beck come Laadeelaa e cavalcate misurate come Holly. Un disco alternativo nelle trovate e nelle idee, sempre veleggiante sul pop, qualche passo in avanti rispetto alla media.

Reptilians, oltre all’attitudine nerd, raccoglie qualche spunto dagli Animal Collective, brilla negli episodi power-electro-pop (Julius), togliendo l’immagine sperimental-scazzona per abbracciare gli immaginari pop di migliaia di giovani americani. Piedi fissi sui synth danzerecci, perfettamente inseriti nella musica alternativa dei loro tempi, i STRFKR richiamano atmosfere anche più dark, date dal basso cavernoso e dal cantato strascicato. Un paragone con i Phantogram, se proprio azzardiamo, adesso è possibile.

Il terzo album uscito da qualche settimana si intitola Miracle Mile, dista 2 anni dal predecessore e 5 dall’esordio, ma qui il tempo diventa un’opinione piuttosto che un dato di fatto. L’apripista While I’m Alive tralascia tutto il gioioso casino per filare dritto su un 4/4 danzereccio: apprezzerebbero anche i Daft Punk, che dal compito a casa sono passati alla lectio magistralis perfetta. Sarà il rigore e l’essenzialità che si respira nell’aria da crisi mondiale, ma un raddrizzamento così netto si era sentito solo nelle metamorfosi punk-dark degli XTC. Sazed si rifa a un giro di basso dei primi U2, Malmo immagina Young Folks se fosse suonata dai Rapture (con tanto di fischio!), cambiando poi il tiro di tanto in tanto prendendo dai Digitalism. Le regole auree continuano in tutto il disco, se non che l’attitudine da dancefloor si va un po’ a perdere, non per bizantinismi ma forse per riscattare il bisogno di pezzi da “disco della maturità” che non hanno mai suonato. In Atlantis s’intravede Miami Vice sotto le lenti dei Crystal Castles, Kahlil Gibran è la sigla di Sentieri suonata dagli ultimi Ratatat indiani, I Don’t Want to See sono semplicemente i Ladytron. Fortuna che con Nite Rite si deraglia un po’ dai canoni prescelti e si sfonda il muro della compressione eterna. Tanti episodi angelici trovano posto in questo disco da 15 tracce, un compendio di come potrebbero suonare gli STRFKR se si mettessero sul serio a comporre canzoni normali, con una melodia semplice ma esistente. Il rischio di diventare i sosia dei MGMT è grande, anche se per questo giro va loro bene. Ma un po’ la nostalgia va alla libertà dell’esordio. Miracle Mile: disco accurato e carino “ma si stava meglio quando stavano messi peggio”.