sabato, Ottobre 5, 2024

Suburbicon di George Clooney – #venezia74 – Concorso: la recensione

Crisis in Levvittown” è un documentario del 1957 entrato a far parte della collezione “ephemeral” di Archive.org. Prodotto da Lee Bobker e Lester Becker per la Dynamic Film indaga le cause e i risultati sottesi dai progetti immobiliari di William Levitt, uno dei costruttori più attivi nell’america degli anni cinquanta, autore di quella “suburbia istantanea” che comincia a promettere alti standard di abitabilità con un concetto apparentemente comunitario e solidale come base sociale e ideologica dell’intero progetto.

In quelli di Levitt e nelle prime cittadine da lui ideate, l’accesso per gli afroamericani non è consentito e come spiegherà a più riprese il noto architetto, i motivi sono per lo più pragmaticamente commerciali: “Come ebreo non ho alcun pregiudizio razziale, ma se vendessi ad una famiglia di colore uno degli appartamenti disponibili, il 95 per cento dei miei clienti bianchi non entrerebbe più nella comunità che stiamo costruendo“.

Bill e Daisy Meyers è la prima coppia afroamericana ad entrare a Lewittown, causando violentissime sommosse e veri e propri tentativi di linciaggio; tragicamente il volto razzista degli Stati Uniti d’America si mostra nel modo più brutale e feroce.
Il documentario prodotto da Bobker/Becker è alla base delle ricerche originarie di George Clooney e Grant Heslow per il loro nuovo film. A questa spinta si aggiunge una vecchia sceneggiatura dei fratelli Cohen scritta alla fine degli anni novanta e conservata da Clooney in un cassetto. Suburbicon, nella versione dei due autori statunitensi, era una commedia-thriller modellata sui tempi e le strategie di quello che sarebbe stato Burn After Reading
Clooney ed Heslow la riesumano e decidono per toni molto più cupi, ambientandola durante la prima settimana in cui i coniugi Meyers decidono di trasferirsi a Levittown.
Per avvicinarsi all’allure anni cinquanta, Clooney e il suo scenografo Jim Bissel scelgono Fullerton, nella contea di Orange in California, sopratutto per lo stato di conservazione del sobborgo, ancora vicino all’architettura originale del 1958 senza variazioni percepibili.
La fotogradia dell’ottimo Robert Elswit esalta quindi le scelte coloristiche di Bissell, cercando nei rossi accesi e nel pastello degli interni, lo spirito di un colore “tecnico” vicino ad alcuni film degli anni cinquanta.
Mentre l’arrivo dei coniugi Meyers assume la posizione dialettica esterna e parallela alle vicende principali di Suburbicon, al centro c’è la famiglia di Gardner Lodge (Matt Damon) e i fatti che seguono una tragica notte, quando due balordi irrompono dentro la sua abitazione e uccidono Rose (Julian Moore), la moglie invalida.
Rimasto orfano, il piccolo Nicky Lodge crede di poter contare sul padre e sulla sorella di Rose, Margaret (sempre interpretata da Julian Moore) e sul giocoso zio Mitch, ma la sua posizione di osservatore gli consentierà di scoprire a poco a poco una realtà brutale dietro i colori rassicuranti della comunità in cui vive.
Più vicino ai tempi e al postmoderno di Confessions of a Dangerous Mind, Suburbicon è un film esplicitamente cupo e manifestamente cinefilo, condotto sul filo di numerosi omaggi hitchockiani, a partire dalla colonna sonora scritta da Desplat su modelli Herrmaniani. Variando con un registro grottesco sui topoi di alcuni noir americani (Wyler, Wilder) compie un’operazione che tende al rovesciamento palese di uno stereotipo (politico, Storico, visivo) per poi cadere nuovamente in quella stessa cornice, come accade a tutti i film filologicamente impeccabili che puntano a svelare dinamiche implicite.
Non è questa la sede per indagare se gli ultimi film dei fratelli Cohen siano ancora in grado di trattenere il vuoto dell’immagine (Blood, Simple, Miller’s Crossing ma anche Mr. Hula Hop per citarne alcuni tra quelli che ci riuscivano), ma è certo che Suburbicon tenda a sbarazzarsi quasi totalmente di quella vertigine pynchoniana tra paranoia e illusione, ipertrofia della scrittura nella creazione di situazioni e personaggi e per contrasto, ripiegamento psichico e dissoluzione di ogni traccia.
Suburbicon è troppo chiaro e lineare (visivamente, cinematograficamente, politicamente) come qualsiasi racconto predisposto per un’interpretazione di tipo allegorico e nel divertimento assoluto che garantisce, non riesce ad andare oltre, nonostante i colti riferimenti ad un episodio dimenticato della Storia americana. Per un’immagine dolorosa e stratificata, che restituisca complessità  anche ai personaggi più controversi e inaccettabili, converrà probabilmente aspettare Detroit della grande Kathryn Bigelow

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media.

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