venerdì, Aprile 26, 2024

Akira di Katsuhiro Otomo, trentesimo anniversario. Il 18 aprile al cinema: l’approfondimento

Nell’Agosto del 1945 le due bombe atomiche americane battezzate Little Boy e Fat Man vengono sganciate sulle città di Hiroshima e Nagasaki, chiudendo definitivamente in un crudele bagno di sangue il sipario del secondo conflitto mondiale. Un bilancio indefinito di centinaia di migliaia di morti certo non è sufficiente a rendere idea del danno causato dalle armi nucleari al Giappone; la contaminazione da radiazioni ha continuato a mietere vittime all’interno delle famiglie degli hibakusha, cioè i sopravvissuti, mentre l’immagine della bomba e la profonda ferita morale sono rimaste impresse nella memoria di più generazioni.

L’atomica è a tutti gli effetti diventata il simbolo di morte più diffuso dal secondo dopoguerra fino ad oggi: la paranoia contemporanea per gli ordigni (e per l’energia che li alimenta) è eredità di quella apocalittica manifestazione di forza che ha raso al suolo un’intera comunità e messo in ginocchio un intero Paese, uno scenario infernale che è entrato indelebilmente nell’immaginario contemporaneo, trasformandosi talvolta in macabra presenza pop, oppure in perfetta metafora del caos, della distruzione, dell’implosione al quale secondo alcuni è destinata la società contemporanea.

Comprensibilmente sono soprattutto coloro che serbano nella propria storia nazionale il ricordo dell’inferno nucleare, ovvero i giapponesi, ad aver interiorizzato più finemente questa immagine, rievocandola in forme adatte alla narrazione contemporanea, la più potente e popolare delle quali è sicuramente quella cinematografica. Lo spettro e il ricordo della bomba si fanno strada sul grande schermo in declinazioni differenti, dai primi film prodotti dopo il concludersi della seconda guerra mondiale fino ad oggi. Parte di questa tradizione cinematografica dedicata al tema della distruzione totale ad opera di mostri (il celebre Gojira è in effetti un’icona pop nata dalle ceneri delle radiazioni) o altri fenomeni apocalittici sono anche opere di animazione. Tra queste spicca come seminale oggetto di culto l’anime Akira, tratto dall’omonimo manga scritto da Katsuhiro Otomo, che ne è anche il regista.

Le opere  “a tema apocalittico” sono molto importanti all’interno del contesto culturale nipponico, tanto da essere oggetto di interessanti studi critici, ad esempio quelli dedicati alla definizione del genere “sekaikei”, che identificherebbe narrazioni di eventi “di entità mondiale” per lo più catastrofici. L’Akira di Otomo rientra in questo ambito e merita assieme al Neon Genesis Evangelion di Hideaki Anno un posto di riguardo, che mantiene anche in quanto anime di genere fantascientifico e, sotto alcuni aspetti, cyberpunk, data la sua importante influenza su opere successive.

L’inizio di Akira è in questo senso significativo: le coordinate temporali iniziali corrispondono alla data della distruzione totale di Tokyo, inglobata in una improvvisa sfera di luce che annienta ogni cosa al suo tocco. Dal 1988, anno di uscita del film,  siamo catapultati nel 2019 a Neo-Tokyo, mentre una didascalia ci informa che  dopo catastrofe, ha avuto inizio una terza guerra mondiale. In questa nuova metropoli futuristica, costruita a ridosso del cratere nel quale si trovava la capitale, scorrazzano per le strade giovani delinquenti, alcuni a cavallo di potenti motociclette, gang motorizzate che i giapponesi chiamano “tribù che guidano senza controllo” ovvero bōsōzoku.

 

I protagonisti dell’anime sono parte della gang dei Capsule, identificati dalla pillola cucita sulla giacca: Kaneda e Tetsuo, coppia di amici d’infanzia dediti alla piccola criminalità, al consumo di sostanze e alla lotta contro altri motociclisti per il controllo delle strade, in uno scenario che immerge l’estetica punk “sterlinghiana”, molto in voga negli anni ’80, in un contesto non pesantemente fantascientifico come opere coeve. Sin dai primi minuti capiamo che Neo-Tokyo, lungi dall’essere una nuova capitale rinata dalla cenere della precedente, è in realtà il residuo marcio del conflitto: una città dominata da corruzione e spezzata da intensi conflitti sociali, ammaliata dai culti millenaristi e piagata dal terrorismo, una metropoli nella quale gli abitanti dei ceti più discriminati sembrano ignorare i valori morali tradizionali.

 

Ad avanzare nel mondo di Akira è un progresso in violenta retromarcia; i personaggi dell’anime avanzano in caduta libera in un futuro che assume le forme di un baratro abbandonato, un cratere che esprime l’idea di annichilimento ma che assieme, accostato allo sprawl urbano costruito in sua prossimità, rappresenta il passato stesso. Lo spettro di questo non lontano passato è una presenza costante nella mentalità dei giapponesi; talvolta si incarna nella memoria della distruzione del proprio Paese durante la guerra, ma il ricordo non manca di spronare alla ricostruzione di un Paese che ha saputo riprendersi con eccezionale rapidità, guadagnandosi un proprio importante spazio all’interno dei mercati internazionali.

Questa intensa volontà di rialzarsi, imponendo il cambiamento radicale della propria struttura sociale e industriale secondo modelli spesso tratti dall’Occidente, certo ha comportato una naturale frattura tra le due anime del Giappone, quella conservatrice, ossessivamente attaccata alle strutture tradizionali, e quella progressista, costituita principalmente da quelle ultime generazioni che hanno fatto esperienza del benessere e non del conflitto.

Il personaggio di Akira, il bambino con poteri psichici tanto potenti da poter distruggere intere città, fornisce un’immagine suggestiva e potente di questo gap radicale, di questa frattura latente nella società giapponese che emerge qui, nell’anime e ancor di più nel manga, con estrema energia: la storia inizia con un cataclisma e si chiude con una seconda ondata di devastazione, mentre ad agire sono quasi esclusivamente personaggi poco più che adolescenti. Q

uesta interpretazione, approfondita in particolare dalla studiosa Susan J. Napier nel suo saggio “Panic Sites” dedicato all’immaginario nipponico della distruzione, suggerisce l’immagine di una tabula rasa del vecchio mondo, nello specifico del vecchio Giappone, sulla quale emergono prepotentemente i più giovani, come Kaneda, Tetsuo e i loro coetanei, motori di un processo di decostruzione della società che parte dal caos per arrivare al nuovo con determinata arroganza. “Io sono Tetsuo” sono le parole finali del film che accompagnano significativamente una sequenza di genesi, ovvero di creazione.

La frammentazione della società e dell’individuo in sfaccettature indefinibili, che vanno a  costituire un magma caotico non governato da sistemi razionali, è del resto una presenza più postmoderna che futuristica o distopica, per quanto queste siano le coordinate di genere nelle quali è comunemente inserita l’opera di Otomo. Akira in questo senso si presenta a tutti gli effetti come un esempio di racconto postmoderno, sia per l’immaginario caotico che va a illustrare,  dove le vecchie certezze, tra le quali quelle scientifiche, non offrono più sufficiente conforto, sia per la propria stessa struttura narrativa frammentaria; “Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine” scriveva in The Waste Land T.S. Eliot evocando immagini diventate topiche nella letteratura tardo novecentesca.

Se l’annichilimento è forse la parola chiave del film di Otomo, il frammento ne è davvero il metro stilistico. In Akira i personaggi, ancora di più nel manga la cui narrazione si dilunga molto attorno alla descrizione del mondo in rovina dopo il risveglio di Akira, si spostano tra le rovine di una città crollata su se stessa, arrancando in un labirinto di scorie che non conserva nulla della precedente forma urbana: l’abbandono del valore della razionalità di matrice illuminista assume dunque nell’anime di Otomo una forma plastica, diventando scenario di una immediata apocalisse la cui manifestazione si rifà alla bomba atomica, arma postmoderna per eccellenza; l’Illuminismo è appunto una delle “grandi narrazioni” messe in discussione dalla critica postmoderna.

Al di là di ogni valida speculazione e del valore di questo film in quanto veicolo di immagini legate ad una sensibilità che coglie la crisi della modernità, Akira resiste negli anni come opera di culto, seminale tanto nell’ambito dell’animazione quanto in quello del genere distopico/fantascientifico che più sembra appartenergli.

Ma a questa categorizzazione Akira sfugge costantemente, proiettando la sua ombra più sul presente che nel futuro: ancora oggi la dettagliata visione di Otomo può affascinarci e intrattenerci, fornendo la suggestiva cronaca di una frattura forse apocalittica interna alla società odierna, non matura o metabolizzata, ma in costante crescita.

Una bomba pronta ad esplodere, proprio come il divino potere annientatore di Akira.

Michele Bellantuono
Michele Bellantuono
Veronese classe '91, laureato in Filologia moderna e studioso di cinema autodidatta, svolge da alcuni anni attività di critica cinematografica per realtà online. Ha un occhio di riguardo per il cinema di genere e dell'estremo oriente

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