venerdì, Aprile 26, 2024

Venezia 65 – L’Autre di Patrick Mario Bernard e Pierre Tridivic – in Concorso.

L’assistente sociale Anne-Marie (interpretata dalla capace Dominique Blanc) è terrorizzata dall’idea di invecchiare. Reduce da un matrimonio fallito decide di sacrificare una storia d’amore con un uomo più giovane per godere della libertà che la fine della vita coniugale le aveva spalancato davanti, e di cui si sente di non aver approfittato abbastanza. Compie però un errore di valutazione, non rendendosi conto che il rapporto con il giovane amante (Cyril Guei) le garantiva la sensazione permanente di sentirsi ancora bella e seducente. Da quando scopre che l’ex-fidanzato ha trovato una nuova, forse più attraente o più giovane compagna precipita lentamente in un baratro, subendo una scissione di cui si macchia, incrinandosi, la materia narrativa e fotografica di L’Autre. L’altra del titolo è sicuramente la nuova donna, la cui identità e il cui volto rimangono celati, indagati da ricerche su internet e chiamate anonime con insulti, ma è soprattutto l’altra Anne-Marie, quella che emerge con l’aumentare delle sigarette fumate, che si fa prendere dalla perversione del voir, incantata dal meccanismo del circuito di telecamere interne istallato nel suo palazzo, delusa dalla quieta tranquillità di un ex-alcolizzata in cura, che preferiva quando beveva, dopo averla aiutata a smettere.
La maschera sociale lentamente si scardina dal volto un po’ pesto e sofferto della Blanc per sostituirsi con la ferita aperta dagli squarci nella carta che tappezza lo specchio, che la restituisce in differita de-sincronizzando i suoi movimenti e rendendola, appunto, altro da sé. Lo spiazzamento che essa avverte non riconoscendosi più nella propria immagine perturba la linearità del film dall’inizio alla fine, che diventa modulazione psichica, chiudendosi alla fine, come ci era stato mostrato all’inizio, con Anne Marie che frantuma lo specchio e poi colpisce sé stessa. L’andamento schizofrenico della pellicola ricorda molti film francesi permeati di ossessività apparsi sugli schermi ultimamente- in particolare mi ha fatto pensare all’italo-belga L’amour cachè di Alessandro Capone con Isabelle Huppert in un ruolo similmente tormentato e scisso: è un tipo di cinema stancante, claustrofobico, che necessità di brave attrici ma le perde per strada, anche.

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