venerdì, Novembre 14, 2025

L’ultimo turno di Petra Biondina Volpe: recensione

La carenza di personale in una corsia ospedaliera spinge Florida, infermiera proattiva ed esperta, ad una lotta impossibile con il tempo. Il piano-sequenza, macchina dell’inesorabile, trasforma il lavoro in una coreografia d’azione, ma all’interno di questa continuità apparente, il gesto interrotto, il contatto umano, la sospensione, sono fenditure che aprono il tempo alla mortalità e alla resistenza. Su "L'ultimo Turno", il film di Petra Biondina Volpe, in sala dal 20 agosto.

Il cinema corale di Petra Biondina Volpe, nel suo terzo film inverte il rapporto tra punto di vista e comunità, consentendo che questa emerga dallo sfondo, grazie allo sguardo di un personaggio centrale da cui promana un’intensa esperienza della sofferenza umana, connessa al difficile esercizio della solidarietà.
Il mosaico di Traumland raccontava una Zurigo marginale attraverso gli incastri narrativi che costituivano un disegno urbano inedito, mentre la ricostruzione di una mobilitazione collettiva, come quella descritta in Die göttliche Ordnung, ci offriva entro il sistema e i codici della commedia politica, uno spaccato degli anni settanta attraverso la descrizione plurale delle voci femminili.

Con Heldin, Volpe e Madeline Calvelage, autrice del saggio “Unser Beruf ist nicht das Problem – es sind die Umstände” e consulente per la sceneggiatura del film, ritagliano su Leonie Benesch un percorso visuale non dissimile da The Teacher’s Lounge, il film che l’ha resa nota fuori dal contesto germanofono e dal quale Volpe ricalca il contrasto tra uno spazio istituzionale concentrazionario e il libero movimento attivo di una donna, costretta ogni giorno a vivere sul bordo, tra regole e un costante stato d’emergenza.

L’ambiente è quello ospedaliero, dove Floria Lind, infermiera proattiva ed esperta, occupa lo spazio pragmatico ed esistenziale dell’ultimo turno lavorativo, subendo la pressione determinata dalla carenza di personale e cercando di mantenere un equilibrio efficiente tra i compiti di assistenza e le complesse esigenze emotive dei pazienti in corsia.

Un contrasto che Volpe, insieme alla consueta direzione della fotografia di Judith Kaufmann, impiegata anche da Ilker Çatak nel già citato “La sala professori”, affida al flusso e alla morfologia del piano-sequenza, di cui fa un largo impiego, non solo per impostare tutta la drammaturgia sull’allineamento tra movimento e inesorabilità del tempo, ma anche per introdurre nell’intrecciarsi di una routine ansiogena senza apparente soluzione, se non quella di abitarla completamente, improvvise asimmetrie provocate dal gesto, veri e propri micro-sabotaggi di una cronometria destinata ad infrangersi.

Il flusso rappresentato dall’unità tra tempo dell’esperienza e durata della sequenza, si incrina quando emerge un’altra temporalità, quella interiore che non si piega ai meccanismi della funzione pura.
Heldin lavora quindi sulla soglia tra azione dinamica e ricerca di quello spazio necessario per una carezza, l’incrocio di due sguardi, lo sviluppo di una relazione empatica, gesti costantemente negati ed in bilico, pena l’implosione e il fallimento di tutto il meccanismo su cui si regge l’assistenza ai malati.

Florida e il suo corpo diventano veicolo del mondo insieme allo spettatore che può quindi servirsi di una percezione incarnata. E quando la fusione tra azione e corporeità viene disallineata, anche lo sguardo subisce una riconfigurazione e la scansione del tempo lavorativo diventa improvvisamente spazio vissuto nella prossimità, ovvero corpo che al movimento sostituisce la cura, anche solo per un attimo.

Ma non c’è, il tempo, perché esiste come materia di lotta, non solo contro l’inesorabilità della morte, ma soprattutto nella dimensione istituzionale che erode il sistema sanitario e lascia isolati gli operatori in una circolarità che stritola e non ammette evasioni.

Volpe ricostruisce la sostanza action di certi drammi ospedalieri chiusi in quel perimetro, reinventandone parzialmente la semantica e spossessando la traiettoria narrativa dalla consueta prospettiva cinica e scientista, che spesso ha determinato una separazione netta tra l’eroe in corsia e il paziente-funzione di quell’eroismo, facendo emergere dallo sfondo una comunità attraversata da una diversa percezione della malattia e del dolore.

Al di là di alcune forzature che servono in qualche modo a definire in termini politici la tesi di un sistema come quello assistenziale svizzero, basato sulla serialità delle procedure a scapito dell’attenzione singola al paziente, la soggettiva perenne assegnata a Benesch viene stratificata fino a spezzarsi, non solo per restituire la fotografia di un mestiere difficile tutto sulle spalle del personale infermieristico, ma anche per descrivere la diversità e la complessità dei drammi individuali nel confronto con la malattia e con la morte.

Nell’orchestrazione parossistica del movimento, la vicinanza diventa possibile quando il tempo, proprio perché insufficiente, costringe a scelte drammatiche e a distogliere lo sguardo dal flusso, improvvisamente catturati insieme a Florida da una morte improvvisa, dal rancore dei famigliari, dai malati che aspettano invano la diagnosi di un medico, dall’insofferenza di alcuni e dall’estremo bisogno di attenzioni da parte di altri.

Se allora il tempo operativo è eccesso di flusso che porta inesorabilmente alla catastrofe, la sospensione nel gesto è l’unica strategia di sopravvivenza possibile contro la logica della velocità.

Il piano-sequenza, macchina dell’inesorabile, trasforma il lavoro in corsia in una coreografia d’azione, ma all’interno di questa continuità apparente, il gesto interrotto, il contatto umano, la sospensione, sono fenditure che aprono il tempo alla mortalità e alla resistenza: lì, nella frattura, il cinema di Volpe smette di essere movimento e diventa meditazione sulla cura e sulla morte.

L’ultimo turno di Petra Biondina Volpe (Heldin, Svizzera/Germania 2025 – 92 min)
Sceneggiatura: Petra Biondina Volpe
Interpreti: Leonie Benesch, Jasmin Mattei, Alireza Bayram, Andreas Beutler, Lale Yavas, Aline Beetschen, Sonja Riesen, Jürg Plüss, Urs Bihler, Eva Fredholm, Dominique Lendi, Doris Schefer, Albana Agaj, Nicole Bachmann, Selma Jamal Aldin, Margherita Schoch
Fotografia: Judith Kaufmann
Musica: Emilie Levienaise-Farrouch

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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