sabato, Giugno 14, 2025

Nino di Pauline Loqués: recensione, Cannes 78

Nino è travolto dalla diagnosi improvvisa di un cancro alla trachea. Vagherà per una Parigi inedita, alla ricerca di identità bloccate nel passato e della pura comunicabilità del gesto. Splendido debutto di Pauline Loqués visto a Cannes 78 nella sezione della Semaine de la Critique

L’ispirazione per Nino nasce dalla personale esperienza di Pauline Loqués legata alla perdita di una persona cara, stroncata da un cancro. La scrittura è servita alla regista francese per trasformare la rabbia e per rielaborare il lutto attraverso il “salvataggio” di una figura narrativa.
L’indefinitezza e l’incertezza del personaggio interpretato da Théodore Pellerin, attore quebecchese noto in patria per la capacità emotiva di incarnare personaggi complessi e vulnerabili, le ha consentito di concentrare il film sulla deambulazione e l’attraversamento di una Parigi inedita, osservata attraverso un punto di vista marginale, sospeso tra decostruzione e l’apertura di spazi derealizzati, non ancora sottoposti a riqualificazione.

Tre giorni, tra la diagnosi e il trattamento chemioterapico, che sovrappongono l’ordinarietà del quotidiano con una spaccatura indicibile, ormai incorporata nello sguardo di Nino e nel nostro.
Il giovane incarna l’inquietudine con l’inadeguatezza dei gesti, l’inadattabilità del corpo rispetto al reale e ai contesti sociali, il ritrarsi della voce, intesa come strumento di relazione e seduzione.

Un tumore alla trachea non ancora esteso, lo mette di fronte alla trasfigurazione della gestualità minima, incluso il continuo schiarirsi la gola, le frasi interrotte, la spinta confessionale annichilita.
Vaga per la città Nino, in una flânerie che ricorda l’impossibilità di approdare, tra sogno e realtà, di certe figure bressoniane: il sognatore Dostoevskyiano, la forza oscura che muove Charles ne Le Diable probablement da uno spazio all’altro, l’angoscia di Mouchette.

Eppure, in questo ingresso a ritroso alla ricerca di una traccia da afferrare nelle proprie storie, da quella filiale nella relazione con una madre distante, agli amici che organizzano una festa a sorpresa per il suo compleanno, fino all’amica ritrovata che attiverà una diversa dimensione dell’ascolto, c’è l’incessante ricerca di vita dove questa, nell’abitudine e nella coazione a ripetere di tutte le relazioni, era già virtualmente assente.
Nino allora non parla, non si confida, non rivela a tutti cosa sia cambiato nella sua esistenza, ma rimette in scena senza convinzione quella maschera individuale, che dal lavoro ai sentimenti, lo cristallizza nella percezione altrui, per poi dismetterla subito dopo, senza convinzione e con l’urgenza di uscire dal proscenio.

Come trasformare quindi in Cinema l’idea della morte che senza avvisare diventa possibile e compresente con le abitudini della vita quotidiana, se non incarnando il movimento e la trasformazione verso una meta che sfugge, costantemente fuori campo e fuori luogo, esclusa dalla cornice rappresentativa in cui siamo immersi.

Senza alcuna possibilità di entrare nel suo appartamento per un paio di chiavi non più accessibili, esplora gli spazi di una città non ancora formata, ma aperta alle apparizioni, gli incontri fugaci, le rivelazioni fuori dai cardini del tempo esperito, come quello in un diurno con una strana figura interpretata da Mathieu Amalric, angelo custode che recupera i farmaci di Nino, gli presta un phon per asciugare il contenitore e la sua acqua di colonia per profumarsi, prima di sparire definitivamente di scena dopo avergli mostrato una foto della moglie, l’immagine di Romy Schneider tratta dalle foto promozionali de “Les choses de la vie”, che assegna alla sua presenza la qualità della visione, del sogno, della follia che salva dalla palude della realtà, di quelle tracce residuali che costituivano le piccole cose, tra bene e male, nel film di Sautet, già sospeso tra imprevisto, scelta e la non linearità del tempo.

La capacità di Ari, nell’omonimo film di Leonor Serraille, di creare traiettorie fluide con lo sguardo simile a quello di un bambino, trova alcune similitudini nel vagare di Nino, anch’esso soggetto destituito da identità e narrazioni che non gli servono più.
Ma a differenza del film della collega, Pauline Loqués cerca nell’apparizione fugace e nella manifestazione potenziale degli istanti, la qualità creativa del gesto affettivo, anche quando questo non è possibile.

Il percorso che per Ari è all’interno di una linea formativa costellata dallo stupore per l’arte come antidoto alla paura generata dal mondo, Nino lo attraversa cercando la corrispondenza di un gesto nell’inerte quotidiano. Che sia l’improvvisa assunzione di un altro punto di vista, come quello della sorella del migliore amico, incrociata in bagno e aiutata a farsi un’iniezione per nutrire le ovaie, oppure il pranzo con la madre interpretata da Jeanne Balibar, dove la comunicazione si basa più sul non detto che sul valore connotativo ed emozionale delle parole, e ancora l’incontro con l’ex compagna, interpretata da Camille Rutherford, ancora bloccato nei segni del tempo passato, soprattutto quelli che non conosciamo, ma che il corpo e i gesti ci rivelano, assistiamo ad una continua rimodulazione dell’interiorità, rispetto alla capacità di assorbimento dell’ambiente e degli individui.

Con un cinema fatto di elementi essenziali e la verità che la fotografia di Lucie Baudinaud riesce a trovare anche negli spazi più freddi, come la luce che nei primi minuti del film illumina un ospedale ostile, con i corridoi coperti da una cataratta di nylon, Loqués ci mostra la difficoltà di accordare il proprio processo emotivo ai tempi, i modi e gli spazi della relazione.

Fuori dal caos della festa e del parlarsi addosso, dello stordirsi per non sentire, Nino trova nell’appartamento di un’amica nuovamente incontrata, una possibilità di dialogo nata da una piccola menzogna.

Cadute tutte le maschere e l’inganno del ruolo, qualsiasi esso sia, l’agnizione sovrappone il dolore alla commozione, la confessione al gesto creativo.
Con un tocco davvero miracoloso Loqués scrive con i volti e i movimenti incerti dei suoi personaggi, rivelandoli improvvisamente nel luccichio degli occhi che investe di senso quello che abbiamo vissuto insieme a loro fino a quel momento, ma allo stesso tempo adottando una sospensione del significato.

Interpretata da Salomé Dewaels, l’amica osserva, ma non indirizza, ascolta e attende, accoglie e si inventa una dimensione rappresentativa più vicina e potente di un amplesso, per aiutare Nino ad ottenere lo sperma da congelare, prima di cominciare il ciclo di chemio e radio.

La scomposizione dell’aurale e del tattile in questa splendida sequenza che non voglio rivelare sino in fondo, descrive la riassunzione della verità emotiva della parola, attraverso la trasfigurazione rappresentativa, il filtro della letteratura erotica, lo spasmo di tormento e piacere come veicolo di conoscenza, mediante lo strumento poetico di Anaïs Nin.

Il debutto di Pauline Loqués è di quelli rari e fulgidi, per capacità di sfiorare verità indicibili con un cinema dove l’essenza linguistica del gesto mostra pura comunicabilità, potenzialità dell’atto oltre il fine sociale.

In the modern world (world)
In the modern world
I don’t feel anything in the modern world
I don’t feel bad

Nino di Pauline Loqués (Francia 2025 – 97 min)
Sceneggiatura: Pauline Loqués
Interpreti: Théodore Pellerin, William Lebghil, Salomé Dewaels, Jeanne Balibar
Fotografia: Lucie Baudinaud
Montaggio: Clémence Diard

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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