lunedì, Maggio 6, 2024

Box Wakamatsu Koji – United red army + Caterpillar

United Red Army parte da qui, dal ’60 arriva al ’72, poco più di un decennio per raccontare il seguito di quella storia e parlarci dei nuovi ventenni, quelli che, sulle barricate delle Università, ripresero la lotta per il diritto allo studio, per opporsi alle basi aeree USA a Okinawa da cui partivano i caccia diretti in Vietnam, per celebrare la Giornata Mondiale contro la guerra e dichiarare lotta senza quartiere alla borghesia conservatrice e alle forze di polizia, lacchè di regime mobilitate in dure repressioni governative. Dalla Cina arrivava l’eco della rivoluzione culturale di Mao e le cronache del maggio francese infiammavano menti e cuori. Anno per anno, quei “formidabili anni ’60 ” che incendiarono gran parte del mondo sfilano in documenti di repertorio, docu-fiction e found footage lungo la prima delle tre sezioni di questo immenso lungometraggio, più di tre ore che scorrono intense, febbrili, affidandosi a soluzioni di regia che tengono stretta l’attenzione in una morsa poderosa.

Alla ricomposizione memoriale della prima parte fa seguito la seconda, fiction costruita su dati reali per seguire le sorti dei due gruppi oltranzisti, frange estreme delle rivolte giovanili, la “Red Army Faction” con leader lo studente Tsuneo Mori e i maoisti del “Revolutionary Left Wing of the Japanese Communist Party” con leader Hiroko Nagata, severa, integralista, devota alla causa fino alla crudeltà, eppure fragile nella forzata mortificazione di una femminilità che Wakamatsu coglie con straordinaria sottigliezza.
Dalle proteste pacifiche al terrorismo il passo fu breve, le due sigle, RAF e RFL, il 15 luglio 1971 si fusero e nacque l’URA, United Red Army, gruppo armato impegnato in rifornimento clandestino di armi ed espropri proletari per preparare la rivoluzione globale.
Ricercati dalla polizia, i due sparuti gruppi di militanti si rifugiarono sulle montagne. Dediti a vita monastica, si addestrarono alla guerriglia con mezzi semi-artigianali e tattiche improvvisate, lessero, studiarono e si formarono sul pensiero rivoluzionario. Infine scoprirono la necessità della famigerata autocritica di staliniana memoria, adottata con singolare fraintendimento di mezzi e scopi come unica strada per diventare autentici rivoluzionari.
Arrivati a questo punto, spontaneismo e improvvisazione divennero contro-rivoluzione, le purghe staliniane e le performances delle Guardie Rosse nelle strade di Pechino impallidirono al confronto, e la differenza fu solo nei numeri. Al posto delle masse qui ci fu un gruppuscolo che si ridusse man mano di numero, composto per due terzi da ragazzi terrorizzati, asserviti totalmente alla minoranza di dirigenti, anch’essi giovanissimi, che ne determinarono le sorti con fanatismo ferreo, ai confini del plagio. Morirono dodici di loro, sottoposti dai compagni a processi, sevizie ed esecuzioni in nome dell’ideale rivoluzionario, che imponeva di depurarsi di tutti i cascami borghesi, inaccettabili in un vero comunista.
E’ il momento centrale e delirante del film, e quello che era iniziato come un reportage documentaristico diventa implacabile kammerspiel, immune da cadute emotive, freddo come la lente di un entomologo, focus diretto su ragazzi da capire, indagandone ragioni e devianze, condizionamenti e aspirazioni. Nella pellicola, lacerata tra pietà e orrore, la realtà irrompe dall’esterno a perturbare il tessuto degli ideali onesti e giusti, trasformando in aguzzini imbevuti di fanatismo giovani saliti pochi mesi prima sulle barricate per migliorare il mondo.
Lo sguardo del regista li tallona evitando stereotipi, la prospettiva è politica ma va oltre il pluridecennale e irrisolto dibattito sull’ “identità”, sulla “filiazione organica”, o piuttosto sull’ “alterità”, fra terrorismo e cultura della contestazione. Wakamatsu ha fatto parte di quei movimenti, ne parla da testimone diretto e con la giusta distanza, propone un documento agghiacciante che suscita soprattutto pensosa riflessione.
Reso oggetto d’arte dalla sua inconfondibile cifra stilistica, il magnifico tappeto sonoro elettrizzante di Jim O’Rourke segna il ritmo mentre il colore, quasi sempre nella gamma dei bruni, è sapientemente virato al nero e al rosso sangue quando la tensione si lacera, quindi si ammorbidisce nei colori autunnali fra i boschi dei vari rifugi, sfumando nel bianco nebbioso della fuga finale, fra le gole innevate delle montagne.
Con la fuga il film arriva alla terza parte, lì dove l’epopea si trasforma in vertigine di fuoco e macerie. Ora non è più il regime del terrore imposto da Mori e Nagata ad impressionare. Siamo all’ “Asamo-Sanso incident”, dal nome della baita occupata dagli ultimi cinque irriducibili, inseguiti da elicotteri e corpi scelti della polizia, mentre la radio dà notizia della cattura degli altri e i media riprendono in diretta tutte le fasi dello scontro. Il governo arriva perfino a mobilitare le famiglie, e padri e madri arrivano supplicando con voce tremante i figli di arrendersi.
E’ la parte più atroce e complessa di questa lunga storia. Wakamatsu riesce con infinita sapienza a distillare verità che scavano molto a fondo nelle storie individuali e nella Storia collettiva, il confine difficile tra il poliziotto che rompe la testa al dimostrante e il dimostrante che la spacca al poliziotto è lì, alla resa dei conti.

L’analisi politica di Wakamatsu è sottile, profonda, ha lo sguardo lungo concesso dal tempo trascorso e dalla militanza costante in un cinema che ha marciato contro fin dall’inizio, come quei giovani, ora in difesa, un giorno all’attacco. Chi sono questi giovani che sparano mentre si affannano a rassicurare la donna prigioniera che non è un ostaggio, che non le faranno del male, che la loro è “lotta politica”? E questa lotta, al vaglio della Storia, è risultata vincente o si è persa fra gli errori che segnano la strada di tutte le rivoluzioni, anche di quelle vittoriose?
Questo vuole il regista che ci chiediamo noi tutti, alla fine delle tre ore e dieci di proiezione. Quanto a lui, risposte ne ha date e ne avrebbe date ancora, se in quel giorno di Ottobre del 2012 non fosse stato falciato via dalla violenza delle strade del mondo.
Al cinema Wakamatsu ha affidato le sue risposte, il suo essere costantemente provocatore e pasolinianamente “irriconoscibile”, e la sua personale fiducia nell’eternità: “Insomma, ad essere sincero non ho idea di cosa ci sia dopo la morte, però sono convinto che se anche ci fosse qualcosa non ne avrei coscienza in quel momento, quindi devo dire che la cosa non mi intriga particolarmente. […] A me interessa quello che succede in questa vita. Una forma di ”eternità”, per esempio, può essere il cinema stesso. […] Magari tra 100 anni ci sarà qualcuno che li proietterà, e a quel punto ovviamente io sarò morto, ma i film ci saranno ancora. Non è eternità questa ? ” (Wakamatsu Koji, Intervista di Alice Massa, extra del DVD Rarovideo).

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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