The Faint – Danse Macabre, Deluxe Edition (Saddle Creek, 2012)

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Colui che viene dopo di me è più potente di me”. Così dichiarava Giovanni Battista a chi vedeva in lui il Messia, e così avrebbero potuto commentare i the Faint nell’estate 2001 – all’uscita di Danse Macabre – se solo fossero stati graziati dal dono della preveggenza. Con il terzo album il quintetto di Omaha, Nebraska, sembrava aver definitivamente inquadrato il proprio stile. Le geniali intuizioni di Blank-Wave Arcade (1999) erano ora pienamente a fuoco: la formula electro/wave/dance del lavoro precedente si sposava ad un’estetica dark e ad un sound massicciamente elettronico, influenzato dalla club culture in misura persino maggiore che in passato. Dal momento che tali sconvolgimenti avvenivano all’interno di una formazione alternative rock, ancora largamente dipendente dal supporto ritmico di basso e batteria, l’operazione si rivelò foriera di un piccolo miracolo. Un’intera generazione di cannaroli afflitti dal male di vivere – tra cui, ça va sans dire, il sottoscritto – prese coscienza delle proprietà catartiche della danza solo grazie a quest’album, finendo per barattare sedativi ed oppiacei con le metanfetamine e ritrovandosi a ballare a mani alzate quella che fino ad un paio di anni prima avrebbe liquidato come musica da gay bar. Una rivoluzione copernicana da non sottovalutare. Erano destinati ad essere grandi i the Faint e per un breve istante, effettivamente, lo furono. Ma in un attimo il testimone venne raccolto da decine di altre band che, su entrambe le sponde dell’Oceano, cominciarono a proporre la loro versione del verbo new wave, dimostrando minore originalità ma ricevendo un’esposizione mediatica infinitamente superiore. Così, da un momento all’altro, i nostri si ritrovarono confusi in mezzo ai vari Franz Ferdinand, Bloc Party, Killers, Kaiser Chief. Una vera beffa, specie se consideriamo che – all’interno del catalogo Faint – Danse Macabre merita davvero la qualifica di capolavoro. Tutti i dettagli sembrano combaciare alla perfezione, contribuendo a tratteggiare un mosaico complessivo di rara bellezza. L’iconica copertina, anzitutto, i cui toni nero e rosso trasportano The Man Machine dei Kraftwerk nell’era del “Fuck Art, Let’s Dance”. Il concept – quanto mai attuale – che attraverso titoli eloquenti come Agenda Suicide e Total Job analizza gli effetti schiaccianti della routine lavorativa sull’esistenza dell’individuo. E infine, naturalmente, la musica. I cinque si approcciano agli strumenti elettronici con lo stesso candore che contraddistingueva gli Human League nel 1979. Anche in questo caso il risultato è una raccolta di grandi canzoni pop basate sui sintetizzatori. Di diverso rispetto all’epoca d’oro del synth pop c’è che nel frattempo la lezione della techno è stata assimilata. Qua e là glitch e sequencer fanno capolino, ma perlopiù la riuscita dei brani si deve ad un eccellente songwriting e alla presenza di sontuose melodie in minore che rendono il sing-along praticamente inevitabile. Così la già citata Agenda Suicide, accompagnata da un video d’animazione decisamente inquietante, diventa l’apripista a cui fanno seguito le altrettanto concitate Glass Danse, Your Retro Career Melted e Let the Poison Spill from your Throat. Sulle seconda facciata l’approccio al ritmo si fa più meditato, vengono passate in rassegna soluzioni alternative rispetto alla prevedibilità della cassa fissa. Si va dal marziale 2/4 di Posed to Death (la loro Tainted Love) all’oscuro breakbeat di Violent, fino alle atmosfere gotiche di The Conductor e alla malinconia di Ballad of a Paralyzed Citizen. La versione deluxe oggi riproposta dalla Saddle Creek aggiunge alla scaletta originale una manciata di succosi inediti. La buona, se pur non imprescindibile, Take me to the Hospital è oscurata da un’eccezionale rilettura di Mote (Sonic Youth), funzionale nel rinsaldare i legami con quei ’90 in cui – contro ogni aspettativa – affondano le radici musicali dei cinque. Meno riuscito l’omaggio ai Bright Eyes: la versione di Falling Out of Love at this Volume proposta dai The Faint cerca in tutti i modi di smarcarsi dall’atmosfera prepotentemente college rock dell’originale, senza raggiungere però gli stessi livelli di pathos. Molto meglio le atmosfere Detroit Techno di Dust, in cui Conor Oberst degli stessi Bright Eyes appare come ospite alla voce. A chiudere un paio di immancabili remix, praticamente obbligatori considerato l’impasto musicale del gruppo. Particolarmente riuscito il mix di The Conductor ad opera di Thin White Duke, che dilata l’originale a ben otto minuti di delirio psichedelico. Nel complesso non si tratta della Bibbia, ma in effetti poco ci manca.