venerdì, Aprile 19, 2024

Pain is Beauty: il sincretismo di Chelsea Wolfe

Fare ordine nella produzione di Chelsea Wolfe non solo è impossibile, ma non renderebbe giustizia ad un processo creativo complesso nato anche attraverso le possibilità dei canali di condivisione di massa che la musicista Californiana ha sfruttato a lungo per diffondere molto del materiale pubblicato successivamente in un formato più digeribile dalla critica, abituata a schemi, griglie e a muoversi entro un’idea evoluzionista della conoscenza, aspetto che poteva forse sopravvivere quando l’immagine del Rock contava ancora sulla distanza mitologica dal proprio pubblico, inventandosi improvvise svolte, nuovi corsi, attese o disattese febbrili e negando in fondo la con-presenza di più livelli in quel complesso gesto atemporale che è un atto creativo di “messa al mondo”.

Certa critica ancora non l’ha capito e al contrario, impazzirebbe se non potesse ricorrere alla trista ragioneria tassonomica racchiusa nei pochi strumenti che consentono ad una recensione di stare in piedi (?) ovvero quelli che permettono di pensare ad un prima e ad un dopo su una linea retta; in questo caso Pain is Beauty era già tutto in rete, in un modo o in un altro, attraverso i residui non ufficiali che la musicista californiana ha pubblicato in questi anni di ripensamento e ri-scrittura continua e quindi era già  tra le pieghe del songwriting di Chelsea Wolfe; per rintracciare alcune delle idee sviluppate nel nuovo album, per esempio,  sarebbe sufficiente tornare indietro e recuperare i brani del progetto Wild Eyes, esperienza “elettronica” già delineata, ma mai veramente “nata” nella forma di una pubblicazione, e condivisa insieme a Ben Chisolm, co-produttore di quest’ultima uscita della Wolfe per Sargent House.

Questo perchè la Wolfe ha lavorato a lungo servendosi di un processo orizzontale di disseminazione, mentre adesso c’è un tentativo, del tutto legittimo, di dare forma a questo flusso creativo, con una produzione verticale scansionata per capitoli e concetti, dove la nuova incarnazione elettronica rappresenta un  “concept” di natura letteraria , come del resto ha raccontato lei stessa in una recente intervista per Drunken Werewolf confermando l’ipotesi che il “mood” sia una scelta strettamente legata ad un’idea narrativa da sviluppare; stesso concetto espresso   nel corso dell’intervista pubblicata su indie-eye, dove in relazione a Unknown Rooms, ci diceva di aver scritto canzoni acustiche per tutta una vita e che quell’album era nato con l’intenzione di “offrire una casa a delle canzoni folk che non ne avevano, orfane“.

Del resto, che tutto il progetto “Wolfe” proceda attraverso il tentativo di mettere in comunicazione tra di loro questi mondi paralleli, è dimostrato anche da alcuni appigli disseminati all’interno di ogni album; Apokalypsis chiudeva con l’astrazione fantasmatica di To the Forest, Towards the Sea, anticipando alcune idee di The Grime and The Glow, l’album dedicato, per stessa ammissione della Wolfe, a spazi derealizzati, luoghi abbandonati e senza più una funzione; quindi il lavoro forse più vicino ad una concezione “acusmatica” della musica proprio nel tentativo di separare il suono da una sorgente riconoscibile, esattamente come una possibile scissione tra immagine e oggetto immaginato; questo al di là del processo generativo dei due album, che come sappiamo, è invertito rispetto all’anno di pubblicazione. E allo stesso modo, Unknown Rooms, mentre veniva anticipato dall’industrial acustico della Lynchiana Widow (video incluso) chiudeva con la bellissima Sunstorm, una ballad già elettronica.

Pain is Beauty si delinea allora come contenitore di un immaginario stratificato, che include non solo una riallocazione di alcune idee contenute “lateralmente” nelle uscite precedenti, si prenda ad esempio House of Metal, strana creatura sintetica costruita sul folk acusmatico di Unknown Rooms, o la rilettura dronica e allo stesso tempo epica del post-punk di Bauhaus e Sister of Mercy in We hit a wall; ma anche tutto quel mondo affettivo (i vari tributi pubblicati dalla Wolfe, incluso uno sorprendente dedicato ai Rudimentary Peni) e Visuale (i fashion video di Charlene Bagcal) che ha identificato un percorso sperimentale apolide.

L’album offre quindi l’illusione di essere quello più compatto e coeso di tutti, sia nella costruzione di un “concept” tematico  sul rapporto tra cecità e visione ma anche nella ricerca di un sound che per la prima volta forse cerca la strada di un’auto-rappresentazione il più possibile personale. Dal groove carpenteriano di Feral Love, brano che circolava già da più di un anno con un paio di versioni live dove la Wolfe si faceva accompagnare da Chisolm al Synth e da una base registrata su iPhone, fino a quello strano connubio tra house e gotico nella lirica The Warden, quasi un melodramma elettronico vicino alle prime colonne sonore di Cliff Martinez.

L’oscillazione tra quello che nella musica di Chelsea Wolfe rimaneva della fascinazione Black Metal e una personale rielaborazione di molteplici stagioni  folk, due mondi anche letterari continuamente in conflitto nella visione filosofica della musicista Californiana, trova una sorta di inquietante sincretismo in Pain is Beauty , titolo che tra l’altro conferma questa ipotesi palindroma; non è quindi semplicemente una sintesi, ma la consapevolezza di abitare un territorio di confine, come parlare disperatamente d’amore con un coltello puntato sotto la gola.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker, un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana e un Critico Cinematografico iscritto a SNCCI. Si occupa da anni di formazione e content management. È un esperto di storia del videoclip e del mondo Podcast, che ha affrontato in varie forme e format. Scrive anche di musica e colonne sonore. Ha pubblicato volumi su cinema e new media.

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