sabato, Luglio 27, 2024

Marc Ribot’s Ceramic Dog: Bad timing rock, la recensione del concerto

Seduto al lato destro dell'”orchestra” Marc Ribot mi da leggermente le spalle e per tutto il concerto con i suoi Ceramic Dog non si muoverà da quella posizione; l’energia del chitarrista di Newark si esprime con improvvisi gesti convulsi, un tormento che nasce da quella stessa postura confessionale e che con la confidenza discreta di un commensale sta a metà tra necessaria distanza e un’accessibile famigliarità. Si contiene meno Ches Smith, con il suo drumming gioioso e potentissimo; tecnicamente impressionante, il batterista che ha già suonato con Xiu Xiu, Good for Cows, Secret Chiefs si estende, letteralmente, sui tamburi e mantiene furia e leggerezza in giusta proporzione senza mai un cedimento.

Shahzad Ismaily dal basso tira fuori qualsiasi cosa, dal dub fino ad un’inquietante drone music; abituato a filtrare i suoni attraverso l’utilizzo di un synth analogico, il polistrumentista di origini pakistane forza lo strumento fino a condurlo sul bordo, durante la serata all’anfiteatro Pecci ha utilizzato anche i tamburi e una drum machine. E a proposito di bordi e di limiti, quali sono i confini dei Ceramic Dog? Forse li ha ben definiti lo stesso Ribot nelle sue interviste più recenti, raccontando il suo percorso di formazione, esperito attraverso numerosi generi “in disguise”. Era punk camuffato da musica Cubana quello dei Los Cubanos Postizos ed è Rock’n’roll dei più sinceri questo, di volta in volta destrutturato da false partenze, accelerazioni improvvise, tempeste elettriche, echi desolatissimi di desert rock alla Thin White Rope, Jazz in forma libera.

Conversando con l’ottimo Maurizio Morganti ci si chiedeva se ci fosse anche qualcosa degli Stones. Il funk di James Brown a un certo punto ha messo al centro alcune radici comuni, e la vitalissima asincronia di Ribot, pur mancando l’aggancio e il porto sicuro del riff, ricorda in parte la capacità di Keith Richards di arrivare un attimo prima o subito dopo sfruttando i difetti del tempo come una risorsa creativa; Morganti, stoniano di ferro al quale non la si fa, ha colto pefettamente il senso del Ribot più urgente, al quale si aggiunge quella “crudezza” Jazz che in qualche modo ha desunto anche da musicisti come Albert Ayler, traducendone la violenza in termini chitarristici.

Show quindi pieno di pathos, di energia, di scazzi e capacità di riprendersi prodigiosamente entro i confini di una tecnica formidabile, mai una volta al servizio del calcolo e del cervello.

A un certo punto mancava solo il rantolo subumano di Tom Waits, ci sarebbe stato bene tra il clangore ricreato da Smith e Ismaily, l’incedere tropical di Ribot e i finti tropici sullo sfondo del teatro, tra luci al neon coloratissime, ombrelloni chiusi e un vero e proprio “Spring Breakers” che di li a poco sarebbe esploso per arricchire questa magnifica serata, ma ci ha raggiunti Piero Certini, ottimo assist per descrivere il cambio di scena.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker, un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana e un Critico Cinematografico iscritto a SNCCI. Si occupa da anni di formazione e content management. È un esperto di storia del videoclip e del mondo Podcast, che ha affrontato in varie forme e format. Scrive anche di musica e colonne sonore. Ha pubblicato volumi su cinema e new media.

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