giovedì, Dicembre 5, 2024

Delegation (Ha’Mishlahat) di Asaf Saban: recensione, Berlinale 73 – Generation 14plus

Il regista israeliano Asaf Saban realizza un film coraggioso e scomodo, sovrapponendo il pellegrinaggio nei luoghi della Shoah di un gruppo di studenti di secondo grado, alle loro pulsioni e incertezze. Delegation mette in dubbio il sistema formativo che a questo disagio, contrappone la strategia della paura. Nella sezione Generation 14plus della Berlinale 2023

Cambia generazione di riferimento Asaf Saban rispetto al precedente Outdoors, ma osserva con la stessa leggerezza di sguardo i turbamenti e le incertezze che si avvicendano in una stagione di passaggio. Il pellegrinaggio di una classe di liceali israeliani in viaggio con la scuola, gli consente di incorporare sullo sfondo dei campi di sterminio nazisti in Polonia, un coming of age atipico, che fa i conti con questioni storiche, politiche e identitarie.

Al centro la pressione istituzionale allestita per sovrapporre le necessità della memoria nelle sue tappe fondamentali, con la formazione personale di un gruppo di giovani. Sono tre quelli su cui Delegation si focalizza, costruendo una tensione amorosa irrisolta, che passa attraverso le energie urgenti di Nitzan, la ragazza contesa tra Frisch, il più timido e introverso della comitiva e Ido, il classico seduttore abituato a seguire tutte le norme dell’apparenza.

Sul confine labile tra amicizia e innamoramento che ha attivato numerose drammaturgie dedicate all’età acerba, Asaf Saban segue le tracce di un dialogo difficile e a tratti impossibile, tra il peso della memoria storica e il futuro della gioventù israeliana, già inquadrata per occupare ruoli ed esprimere sensazioni indotte da una percezione persecutoria.

Sorprendentemente, il regista di Tel Aviv, dedica uno spazio marginale all’indifferenza delle nuove generazioni nei confronti del proprio passato storico, per mettere in dubbio il sistema formativo che è alla base di questo disagio.

La Shoah è sempre presente, non solo con i resti materiali e architettonici di Chelmo, Belzec, Sobibor, Treblinka, il complesso di Auschwitz e Maidanek, ma anche nel continuum organizzato tra i pullman e gli alberghi che ospitano la comitiva. Sui primi, una serie di classici del cinema fino a Schindler’s List, rappresentano l’offerta educativa principale, mentre all’interno degli spazi chiusi si vive una vita parallela nel nome della necessaria spensieratezza che ravviva tutte le gite scolastiche, ma fondata sulla paura dell’esterno.

Le continue sollecitazioni a cancellare tutti i segni identitari riconoscibili, linguistici, simbolici e comunitari, durante le escursioni libere nelle città visitate, colloca l’esperienza di questi ragazzi in una dimensione sospesa, dove gli unici confini conosciuti sono determinati dalle interazioni all’interno del gruppo e dal destino inesorabile definito dalle tracce della cultura memoriale.

All’esterno di questa zona securitaria, è la paura l’unico codice di lettura della realtà, proprio per questo Delegation è costruito secondo un principio immersivo che colloca la rimessa in scena del genocidio, nello spazio soffocante di un’esperienza già scritta, che deve ripetersi ogni volta come sollecitazione forzata della coscienza.

Saban non mette in discussione le radici e la storia del suo popolo, ma mostra la crudeltà di un processo obbligato, che ricolloca la posizione delle nuove generazioni israeliane nel solco senza uscita occupato dalle vittime.

Diventa allora un film di derive e infrazioni inattese il secondo lungometraggio del regista israeliano, dove la fuga, l’appropriazione di un pezzo di storia, la rilettura personale del singolo rispetto al peso di una tragedia collettiva, risuonano con le pulsioni più importanti e determinanti dell’adolescenza.

Interpretata da una notevole Noemi Harari, Nitzan, la cui inquietudine definisce le qualità di un’anima dolente alla ricerca di un proprio spazio nei percorsi obbligati dal peso della Storia, ruba la scarpa di una delle vittime di Treblinka, come per lenire un dolore insostenibile che aumenta la frequenza del respiro. E se il senso di colpa la schiaccia per tutto il viaggio, in quel pezzo di storia illecitamente sottratta c’è un tentativo di oltrepassare la norma istituzionale del ricordo, con un gesto inconcepibile, disciplinarmente inaccettabile, ma che trasduce l’immersione forzata nell’orrore, nella possibile reazione tattile che le consenta di avvicinarsi alla sostanza più oscura di ciò che non si può dire né vedere.

Frisch, che non accetta il peso della tradizione famigliare, determinata anche dalle testimonianze del vecchio nonno al seguito, è l’unico che evade dai luoghi stabiliti, disertando la visita ad Auschwitz e infrangendo la regola principe che vieta ai ragazzi di girovagare da soli e di manifestare qualsiasi segno che possa ricondurre all’identità ebraica. Fuori dalle regole concentrazionarie del sistema educativo, si troverà casualmente al centro di una sinagoga locale, con il sindaco del paese e il camionista ebreo che l’ha soccorso durante l’autostop.

Nella messa in scena, letterale, di questa ennesima celebrazione, dove il ragazzo viene indotto a recitare qualcosa di sacro e pregnante in una lingua sconosciuta agli astanti, Saban sovrappone più registri, elaborando un disagio che è culturale, linguistico, Storico e generazionale. Frisch non può assolvere ad un compito che spetta all’ortodossia, se non fingendo, interpolando testi che non c’entrano con l’occorrenza, mentendo alle autorità scolastiche sull’esperienza presente di Auschwitz, per lui mai stata.

L’energia pulsionale è allora l’unica in grado di erompere e corrodere gli argini di una narrazione già stabilita, non solo nel racconto impostato dall’istituzione scolastica, ma anche nelle possibili codifiche dell’esperienza individuale.

E Saban ce la mostra nei principi opposti dell’innesco e del sabotaggio del racconto stesso.

Oltre a Nitzan, anche Frisch cerca la rivelazione altrove, tra le braccia di una bella ragazza polacca, dopo un’ulteriore deriva dalla strada maestra, che mostra ai tre giovani quanto illusoria sia quella paura che li chiude in una realtà asettica.

La luce che lo illumina dopo la notte d’amore, non stride con i canti celebrativi davanti ad un monumento, ma gli consente di collocarsi entro una dimensione maggiormente apolide.

Al contrario, Ido, mentre dichiara il proprio amore per Nitzan, nega il contatto avuto con la ragazza all’interno di uno dei campi di sterminio, come se quella richiesta d’amore e di conforto da un dolore sordo, dovesse esser derubricata nello spazio dell’indecenza, rispetto al peso della Shoah che incombe su tutti loro.

Saban realizza un film scomodo e coraggioso, servendosi di uno sguardo libero come quello dell’adolescenza, ancora incerto tra la determinazione di un percorso obbligato e la flânerie errabonda che riscrive, da sempre, le storie della prassi formativa.

Nel sovrapporre il pellegrinaggio nei luoghi della Shoah con il futuro dei giovani israeliani, può quindi adottare il registro della leggerezza, come antidoto a quella dimensione celebrativa che ha sostituito il peso materiale del mausoleo, alla ricezione attiva di anime in cerca di verità e vita.

Delegation di Asaf Saban (Ha’Mishlahat, Polonia, Israele, Germania 2023 – 101 min )
Interpreti: Yoav Bavly, Neomi Harari, Leib Lev Levin, Ezra Dagan, Alma Dishy
Sceneggiatura: Asaf Saban
Fotografia: Bogumił Godfrejów
Montaggio: Michal Oppenheim

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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