Il paradiso degli orchi – Il corponauta: un viaggio tra letteratura e musica

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Spirito libero e mai riconciliato, Flavio Emer muore a soli 46 anni nell’agosto del 2015 dopo una lunga lotta con la distrofia muscolare. Il suo attaccamento alla vita e alla libertà lo aveva spinto a perseguire con dedizione l’arte della scrittura, una lotta anche fisica per Flavio. “Oby One Kenoby” era il sistema informatizzato che utilizzava per scrivere, un’applicazione avanzata per la dettatura. Il corponauta, appunti di viaggio di uno spirito libero è il secondo libro di Emer, pubblicato nel 1996 per Interlinea. Il testo ingaggia da subito una lotta tra pensiero e corpo in un progressivo percorso di consapevolezza dove il primo non si sbarazza del secondo, ma rispetto a qualsiasi dimensione metafisica, lotta per comprendere gli impacci della disabilità, dialogandoci giorno per giorno. La libertà allora non è semplicemente quella dello spirito, ma una riacquisizione della presenza dei sensi.

È da questo insegnamento che nasce il lavoro davvero “sensoriale” de Il paradiso degli orchi, nuovo album della formazione bresciana, prodotto da Fabio Zuffanti e frutto di tre anni di lavoro. Il risultato si avvicina a certi concept album degli anni settanta con decisi riferimenti alla cultura musicale progressiva, proprio per la peculiarità improvvisativa da cui sono nati tutti i brani.

Mentre le registrazioni dell’album avvengono nello studio Altefrequenze di Giorgio Reboldi, Il paradiso degli orchi si trova ad utilizzare un mellotron M400 originale, unico strumento utilizzato fuori dallo stesso studio e registrato in quello dei fratelli Poddighe,  un ponte con il passato che rimane chiave di lettura importante per la musica dei nostri. Uscito lo scorso aprile per AMS records, etichetta specializzata in quei progetti che nascono dalla contaminazione di più generi, l’album si muove in egual misura tra psichedelia, jazz, folk e il miglior cantautorato italiano, senza per forza replicare sonorità e scrittura di questa o quella band.

Se “Il mondo dei pensieri” sembra nutrirsi attraverso gli ascolti di Emerson Lake & Palmer e Jethro Tull, la title track  è un esperimento più atonale, dove il lavoro di scrittura di Marco DeGiacomi e Michele Sambrici si muove tra free talking e jam.

In generale, la fusione tra musica e suggestioni letterarie, aspetto che informa tutto il progetto di DeGiacomi/Sambrici fin dagli esordi (ricordiamo che il loro nome proviene dal primo romanzo Pennac del ciclo di Malaussène) si avvicina in parte allo spirito di Peter Sinfield, proprio per l’attenzione evocativa e combinatoria tra parola e paesaggio sonoro, dove la natura, difficile oppure materna, è l’origine dal quale sgorgano suoni e racconti.

Questo consente aperture verso quell’interpretazione del prog che è stata fatta in Italia da artisti non necessariamente vicini a quell’area, tanto che nei passaggi più ispirati ci sembra che il riferimento più appropriato sia quello del Battisti meno pop e di album come “Anima Latina”, passando ovviamente per sonorità che sono state esplorate dai maggiori interpreti di quei suoni (Banco del Mutuo Soccorso, PFM, Le Orme).

Ma tutto si complica attraverso le tracce più spigolose, come “addio al corpo” e “Volare via“, esempi più muscolari vicini all’evoluzione di band come i Voivod nella fase più psichedelica della loro carriera, ma anche ne “Il volo” esempio di folk espanso che ricorda la furia tribale dei CAN, con incursioni di musica orientale e la tradizione corale occidentale a trainare il tutto, davvero un brano splendido.

Il corponauta è un album visionario ma allo stesso tempo ancorato alla forma più fisica e terrena dei suoni, un’esperienza da non trascurare.