venerdì, Marzo 29, 2024

Walden Waltz – Eleven Sons: la recensione

Aretini come i Sycamore Age, i Walden Waltz condividono con il combo di Santoni/Chimenti e soci amicizia e collaborazioni ma anche un approccio di fondo alla musica che tende a smarginare confini e affrontare i generi come uno stato di passaggio.

Non è l’effetto di una cultura enciclopedica, al contrario ci si riferisce sempre alla capacità di utilizzare il bagaglio di conoscenze per accrescere l’idea di una musica espansa, dove la percezione cambia continuamente durante il corso del viaggio.

Potrebbero essere i segni dei Beatles e quelli di Syd Barrett in So They Say, i Mercury Rev più furiosi in Feed the ignorance, gli Air e il Brian Eno pop in Move Ahead, Robert Wyatt in A and D, il folk minimale della Penguin Cafè orchestra ma anche quello di Sufjan Stevens in How Long, il Bill Laswell di Hear no evil in You’ll Be Home.

O al contrario, niente di tutto questo, proprio per il continuo trascolorare di una suggestione nell’altra, senza correre il rischio di sembrare troppo eclettici, ma con l’intenzione di spingersi radicalmente a fondo, verso l’origine di quei suoni.

Si lambisce allora l’energia ancestrale di una danza intima e allo stesso tempo collettiva che trova nella coincidenza di opposti del dionisiaco l’anello di comunicazione tra vita e morte, non solo perché l’episodio più breve, Dithyramb, si riferisce a quel canto, ma anche perché lo fa restituendoci in forma essenziale e scarnificata quello stesso incedere che si può ravvisare in tutte le tracce di “Eleven Sons“.

Non ha importanza quindi l’approccio filologico quanto quello attitudinale, e se al posto della lira, della grande cetra o dell’aulòs ci sono gli strumenti di altre tradizioni popolari, è l’uso non convenzionale e sincretico che se ne fa a rendere l’esperienza sonora qualcosa di profondamente nuovo e allo stesso tempo famigliare, come le “verità segrete esposte in evidenza” della ricerca esoterica.

In questo senso, il debutto sulla lunga distanza dei Walden Waltz ci è sembrato sorprendente e probabilmente una delle cose più stimolanti accadute alla musica “italiana” negli ultimi anni. I confini della psichedelia ci sembrano quindi un limite per definire la musica della formazione aretina, così come lo erano per progetti apolidi e di confine come O’rang, l’esperienza di Paul Webb e Lee Harris dopo Laughing Stock. Anche in questo caso la definizione di un “punctum” ancestrale fa da ponte tra passato, presente e futuro, trovando il centro nella definizione del “saremo già stati“, ovvero una musica declinata sempre al futuro anteriore.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker, un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana e un Critico Cinematografico iscritto a SNCCI. Si occupa da anni di formazione e content management. È un esperto di storia del videoclip e del mondo Podcast, che ha affrontato in varie forme e format. Scrive anche di musica e colonne sonore. Ha pubblicato volumi su cinema e new media.

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