Spaventapasseri con prospettive omicide: una retrospettiva sul fenomeno Liars – 1/5

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Gli anni zero volgono al termine e i poliedrici Liars si apprestano a licenziare il quinto capitolo della loro carriera musicale. Un ottimo pretesto per tirare le somme sul percorso di un gruppo che, più di ogni altro in ambito rock, ha segnato irrimediabilmente gli ultimi dieci anni. Sebbene artisti come Strokes, Interpol o Yeah Yeah Yeahs abbiano ricevuto soddisfazioni maggiori in termini di vendite e popolarità, i Liars hanno brevettato una formula mutante che permette loro di suonare freschi ancora oggi, laddove altri si sono arenati dopo pochi album a causa di vuoti creativi o per semplice esaurimento della spinta. Al contempo i traguardi raggiunti dal gruppo sono innegabili e li distinguono nettamente dalle formazioni underground che, pur producendo musica altrettanto buona sul piano qualitativo, sono ancora relegate nella semioscurità. La firma con la prestigiosa etichetta Mute, gli attestati di stima da parte di veterani del settore quali Sonic Youth e Radiohead, la continua presenza in tour, hanno permesso ai nostri di ottenere il riconoscimento che certamente meritano. Il loro segreto risiede nell’aver sempre mantenuto un certo grado di accessibilità, dimostrando al contempo la capacità di sperimentare con trovate originali. Ogni nuova uscita del gruppo presenta soluzioni innovative, in grado di prendere l’ascoltatore in contropiede. Quella dei Liars è in definitiva musica interessante che, senza essere mai scesa a compromessi col mercato, ha saputo sedurlo.

Il primo nucleo della band si forma a Los Angeles, dove Julian Gross e l’australiano Angus Andrew frequentano i corsi del California Institute of the Arts, mentre Aaron Hemphill è impiegato in un negozio di dischi. Hemphill e Andrew instaurano ben presto una proficua collaborazione musicale. Dopo aver inciso diversi brani su un quattro piste, decidono di partire insieme alla volta di New York. Qui, grazie ad un annuncio, reclutano due musicisti originari del Nebraska, Pat Noeker (basso) e Ron Albertson (batteria). Con Andrew alla voce e agli effetti, Hemphill che suona la chitarra e programma il campionatore, i quattro danno inizio ad una intensa attività live nei circuiti della grande mela. Gross, dal canto suo, non parteciperà attivamente ai primi anni di vita del gruppo, se non come simpatizzante e responsabile dell’artwork.

Nel corso del 2000 i Liars registrano un primo demotape, che verrà ripubblicato due anni dopo dalla Sound Virus con il titolo We no longer knew who we were. Attualmente l’EP è difficilmente reperibile sul mercato, ma vale la pena provare a scaricarlo: illustra in maniera esemplare come i propositi del quartetto fossero chiari fin da subito. Tre pezzi in totale, l’apripista bulldozer We got cold, coughed and forgot things, il funk start and stop You know I hate stupid phones e lo shuffle nevrotico Every two hours with a ducks fan. Tanto basta per mostrare al mondo la grinta che ritroveremo nell’album di esordio. La batteria è implacabile, carica di groove. I monumentali giri di basso costituiscono l’impalcatura cui si appoggiano i brani. La chitarra, secca e tagliente, irrompe con interventi discreti ma incisivi. La voce è acerba e aggressiva, filtrata da vari pedali ad effetto. Andrew mostra già la passione per un frasario creativo e sconnesso, così come la tendenza a indulgere in titoli lunghissimi e sibillini.

All’alba del secondo millennio, la musica del gruppo è necessariamente influenzata dalle tendenze che infiammano l’underground newyorkese. La scelta di modelli post-punk quali Gang of Four, PIL, Contortions, ESG, sembra accomunare i nostri a band come Rapture, !!! o Radio 4. Eppure la violenta miscela di ritmo e rumore coniata dai quattro è lontanissima dal punk-funk edulcorato dei loro colleghi. I nostri recuperano soprattutto lo spirito iconoclasta dei tardi anni settanta, fondendolo ad una estetica brutale di matrice Touch & Go che li avvicina semmai a coevi guastatori quali Black Dice e Oneida.

Quando nell’Ottobre 2001 l’indipendente Gern Blandsten pubblica They threw us all in a trench and stuck a monument on top, la precisa volontà del gruppo di rifiutare ogni tipo di incasellamento è evidente fin dal titolo. Curiosamente l’album esce a ridosso della catastrofe che segna per sempre la città di New York. Gli sfrenati baccanali dei Liars diventano così la colonna sonora ideale per musicare il caos in cui è improvvisamente piombata la società americana. Ritmiche schiacciasassi sul modello Big Black in Grown men don’t fall in the river just like that e Loose nuts on the veladrome sprigionano un senso di minaccia quasi tangibile. L’irresistibile tormentone Mr. you’re on fire Mr. o We live NE of Compton, punk-funk d’assalto che scatenano spasmi da nevrosi ritmica, flirtano invece con il pop in maniera più decisa. Nel confuso cut-up dei testi affiora a tratti una verve politica che si scaglia contro l’ottusità dell’american way of life (“…We got our finger on the pulse of America…”). L’elemento del fuoco – la stessa energia distruttiva che ha spazzato via le due torri – ritorna con insistenza. I quattro sembrano lanciare un avvertimento alla nazione americana (“Wake up, you’re a person on fire!”), ammonire un popolo accecato dalle proprie sicurezze (“No attention, bad”… “Mr. you’re on fire, Mr./No sir, I’m ok”), che sta sprofondando nell’incoscienza senza accorgersi di quello che ha intorno (“Past fumes will burn us in our bedrooms”). Gli episodi più lenti, come l’hip hop industriale di The garden was crowded and outside o l’oppressiva Nothing is ever lost or can be lost my science friend, denotano già l’attrazione verso la trance che caratterizzerà i lavori successivi. Significativo in questo senso è soprattutto il pezzo di chiusura, This dust makes that mud, un mantra-rock di 30 minuti che sembra uscire direttamente da Metal Box dei PIL e crea un ponte fra presente e futuro.

Nel Novembre 2002 i Liars pubblicano un’EP intitolato Fins to make us more fish like, che si muove su coordinate non troppo diverse dall’esordio ma insiste maggiormente sugli elementi sperimentali, dilatando il sound oltre misura. Pillars were hollow and filled with candy so we tore them down è un esempio di dance atmosferica e spettrale, in cui impulsi elettronici soppiantano il basso e la voce si perde fra mille riverberi. Every day is a child with theet è invece un ritmo brutale e zoppicante, disturbato da un loop fuori sincrono. In entrambi i pezzi la chitarra abbandona le rasoiate metalliche per esplorare un universo di dissonanze psichedeliche.

Nel frattempo il debutto ha suscitato una certa curiosità intorno al quartetto, tanto da fruttar loro un tour di supporto ai Sonic Youth e l’attenzione della Mute che, tramite la sussidiaria Blast First, ristampa il disco ormai fuori catalogo e mette la band sotto contratto.

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