sabato, Luglio 27, 2024

Scott Cudmore, l’arte del videoclip: l’intervista esclusiva

Scott Cudmore, regista torontoniano dal grande talento, comincia a lavorare nel campo dei video musicali in modo casuale, mentre è impiegato in una videoteca. Ce lo racconta in questa lunga intervista che passa in rassegna tutti i suoi video più belli a partire dal 2007, anno in cui produce i primi lavori che si sente di inserire nella sua ricca e creativa videografia.

Durante questi dieci anni è riuscito ad inventarsi uno stile personalissimo e innovativo, rileggendo la storia stessa della videomusica, alla luce dei nuovi formati digitali, inglobando e ri-mediando quelli del passato in una cornice semantica inedita, basta pensare che il suo video più recente , diretto per la superstar Selena Gomez, oltre ad essere un divertito omaggio “pop” al cinema di Godard, è stato quasi interamente girato in 16mm. Rappresentato in tutto il mondo da società come Good Company, Revolver Films, Lock It in, si è dibattuto tra videoclip e commercial, realizzando spot per brand globali come Pepsi Cola, Tiger Beer, Kenzo, Doritos, Spotify e videoclip per musicisti di altissimo livello internazionale. Tra i video più belli e quelli più premiati c’è il capolavoro diretto per i Fucket Up intitolato “Queen of hearts”, quelli per Timber Timbre e Great Lake Swimmer e i recenti video per Feist, N.E.R.D e Selena Gomez. 
Al centro della sua ricerca, oltre ad un’attenzione specifica ai volti, ai gesti e ad una personalissima ritrattistica, c’è il modo in cui percepiamo la realtà, ri-messa in scena attraverso formati e dispositivi della memoria. Più vicino al cinema che alla videomusica in senso stretto, Cudmore fa sua l’ibridazione estrema del videoclip, traghettando la funzione promozionale del “genere” oltre i suoi stessi confini e lavorando in modo divertito e sempre originale, sulle sollecitazioni del metalinguaggio.

Mi piacerebbe partire proprio dai tuoi inizi, considerando che ricostruire la tua videografia con un approccio cronologico e storico è molto difficile. Ho cercato di mettere insieme informazioni incrociate dal tuo profilo vimeo, dalle recensioni e dagli articoli usciti durante questi anni e ovviamente da IMDB e IMVDB. Al momento non sono sicuro quale sia effettivamente il tuo primo video! Il primo che hai caricato su Vimeo è “Fake Empire”, girato per The National, mentre il primo segnalato su IMDB è “Your rocky spine” per i Great Lake Swimmer. Sono due lavori molto differenti, per approccio, stile e tecniche, anche se riconosco il tuo tocco non convenzionale. La domanda, dopo questa lunga introduzione è molto semplice: puoi parlarci dei tuoi inizi con i video musicali?

Entrambi i video che citi sono stati realizzati nello stesso periodo, più o meno, e se non ricordo male era il 2007, l’anno che segna effettivamente l’inizio della mia carriera come regista di video musicali propriamente detti. Ci sono altre cose che ho realizzato prima di quel periodo, ma non saprei come definirle. Non credo siano realmente rappresentative del mio lavoro. Il 2007 è un anno cruciale per me perché stavo cercando di realizzare video in un modo specifico, oltre a definire la mia personale “voce” nel settore. Onestamente, tutt’ora non so dirti quale sia realmente la mia “voce”, anche se so come essere onesto con il lavoro che svolgo senza usare una voce fasulla.  In quel periodo non sapevo ancora come parlare, ma in un modo o nell’altro, cercavo di farlo.

The National -Fake Empire- Dir: Scott Cudmore (2007)

 

“Your rocky spine” sembra provenire da uno spirito anni novanta e da quei video che guardavano in egual misura alla pittura e ai tableaux vivants, giusto per citarne uno molto famoso, “Losing my religion”, il video girato da Tarsem Singh per i R.E.M. “Fake Empire” invece è maggiormente influenzato dal cinema d’autore internazionale. I riferimenti principali sembrano Godard e Bresson. Entrambi i video mostrano una grande sensibilità per il ritratto, ma rappresentano due direzioni diverse, artificio e realismo, una costante durante tutta la tua videografia, penso all’utilizzo di linguaggi, formati e dispositivi diversi tra loro….

Credo che questi due video siano un buon esempio di come cercassi di provare idee e stili differenti, per trovare quello giusto per me. Ero probabilmente influenzato dai video di Michel Gondry e altri contemporanei a lui, un interesse che mi ha portato alla realizzazione di “Your Rocky Spine”, mentre la realizzazione successiva di “Fake Empire” era più vicina al lavoro di Edward Hopper, a livello di influenze. Adesso posso dirlo che Gondry e Hopper hanno avuto un’influenza sul mio lavoro, ma se torno indietro a quei video, il mio pensiero di allora somigliava maggiormente ad un “Okay, cercherò di fare quello che loro farebbero” perché ancora non sapevo esattamente cosa avrei realizzato. Naturalmente e inevitabilmente, la tua personale voce inconsciamente imbocca una direzione precisa, anche quando pensi che il tuo lavoro sia semplicemente imitativo. Mi sono sempre interessato a lavori divergenti e di stili differenti, dal cinema d’autore europeo fino alle commedie americane di 90 minuti, dai fumetti alle graphic novels, fino al lavoro di ricercatori come Joseph Campbell (N.D.R.  uno dei maggiori storici delle religioni a livello mondiale, accademico presso Sarah Lawrence College e autore di numerosi e seminali saggi). Anche per questo non ho mai avuto la netta consapevolezza di uno stile o un “genere” che potessi staticamente identificare come “il mio stile”. Non penso mai “voglio fare questo tipo di lavoro” in un modo così specifico, per questo credo che anche nei miei primissimi video come quelli che citi, ero alla fine semplicemente me stesso, mentre cercavo di mettere insieme i pezzi di quello che sarebbe stato il mio futuro lavoro.

Great Lake Swimmers – Your Rocky Spine – Dir: Scott Cudmore (2007)

 

Puoi Parlarci della tua collaborazione con Timber Timbre. Come è cominciata e come ha cambiato il modo di approcciarti ai video musicali?

Taylor è uno dei primi artisti per cui ho lavorato. Ero impiegato in una videoteca quando l’ho incontrato, lui e la sua ragazza di allora erano clienti del negozio. Un giorno mi regalarono una copia di “Cedar Shakes”, il primo disco come Timber Timbre. Mi colpì moltissimo. Siamo diventati amici e girai un paio di video con lui, realizzati per 200 dollari. Si fidò semplicemente di me anche se non avevo realizzato niente. Quei primissimi video realizzati per lui mi hanno aiutato a sviluppare quel percorso di cui ti parlavo prima, cercare di tirar fuori la mia voce, il tono e le modalità con cui il mio lavoro sarebbe andato avanti. Quei progetti sono molto importanti per me, proprio per questo adoro fare video con Timber Timbre, la musica che scrivono è splendida e mi sembra progredisca in meglio di disco in disco.

La collaborazione con Mchael Leblanc, direttore della fotografia, comincia più o meno durante la realizzazione dei video per Timber Timbre. Una collaborazione molto lunga. Puoi parlarci della vostra particolare alchimia?

Buffo da dire, ma Michael era anche lui un cliente della videoteca dove lavoravo, l’ho conosciuto nello stesso modo in cui sono entrato in contatto con Taylor. Michael entrava nel negozio chiedendo cose molto specifiche come: “potresti consigliarmi qualche buon film degli anni settanta dove si pratica lo sci da discesa?” In questo caso specifico gli consigliai “La grande estasi dell’intagliatore Steiner” di Werner Herzog. Da quel giorno si presentava in negozio a scadenza settimanale con richieste e categorie di interesse sempre più strane. Abbiamo cominciato a parlare e dopo avergli chiesto cosa faceva, mi disse che era direttore della fotografia, mentre io gli raccontavo delle mie prime esperienze con i video musicali. Tra una conversazione e l’altra abbiamo realizzato insieme “Your Rocky Spine”, il primo lavoro realizzato con Michael. Siamo andati avanti a lungo con una grande sinergia e ho imparato molto da lui. Durante questo periodo abbiamo deciso di siglare i nostri lavori come un “duo” e abbiamo lavorato con quella sigla, Cudmore-Leblanc, per alcuni anni. Abbiamo smesso di lavorare insieme come duo in modo totalmente amichevole, si è trattato semplicemente di un capitolo giunto alla fine, entrambi avevamo bisogno di andare avanti verso cose completamente nuove

Prima di parlare di uno dei video più premiati della tua carriera, il meraviglioso “Queen of Hearts” per i Fucked Up, mi piacerebbe parlare dei video che hai realizzato prima, tra il 2009 e il 2011, perché mi sembra che a livello sperimentale, tu abbia testato alcune idee sviluppate poi negli anni successivi. Il primo è “Kid” girato per Still Life Still. Racconto di formazione e trauma è uno dei tuoi temi preferiti, mi sembra di poter dire, e qui sembra che tu abbia assunto il punto di vista del killer di Columbine, mentre torna nella scuola dove ha massacrato studenti e insegnanti, per cercare i fantasmi, ma anche la perdita della propria gioventù. Puoi parlarci della lavorazione del video?

Cercavo di cogliere la sofferenza e l’agonia di quegli anni formativi, fino agli anni della high school appunto. Specialmente dal punto di vista di qualcuno che non era molto popolare e che si sentiva fuori dal contesto. Vedi, penso ancora a quel periodo come al momento in cui cercavo di capire cosa cazzo stessi facendo. Il video riflette molto quelle sensazioni. Non credo che il video esprima questo egregiamente, ma quando lo riguardo, ci riconosco la genesi di moltissime cose che sono rimaste definitivamente con me. Per quanto riguarda il tema, non pensavo a Columbine o all’orrore dei massacri nelle scuole statunitensi, ma semplicemente al trauma della crescita e al sentimento di alienazione e isolamento che si prova durante questa fase della vita.

Still life Still – Kid – Dir: Scott Cudmore (2010)

 

Tra l’altro “Kid” sembra in un certo modo connesso con il bellissimo commercial che hai realizzato per la Pepsi. Sentimenti, interrogarsi sulla vita e sull’amore e improvvisamente coriandoli come un’esplosione di gioventù….

Assolutamente si, sono sempre stato interessato a quell’età e agli anni della formazione, quando si diventa un uomo o una donna, un adulto che lascia improvvisamene dietro di se l’infanzia. Per molti è una fase molto potente ovviamente, e ci sono tornato sopra molte volte. Lo spot realizzato per la Pepsi è l’altro lato della medaglia rispetto a “Kid”, non riflette l’isolamento, ma il coraggio.

Chariots, commercial per Pepsi Cola – Dir: Scott Cudmore (2011)

 

“Mercy Line” per Modern Superstition, introduce un sistema narrativo che è fuori dalla cornice del video musicale per come lo percepiamo e che lo include solo successivamente. Una strategia che hai sviluppato più tardi in modo maggiormente radicale con un video innovativo come “it’s ok, i promise” realizzato per Harrison. Ci puoi raccontare la relazione tra “Mercy Line” con i tuoi video più recenti dove è evidente la sperimentazione tra formati e narrazione?

Con “Mercy Line” cercavo di prendermi gioco del televangelismo cristiano e di programmi televisivi su quel modello, cose che trovo davvero detestabili. Così quando la croce cade e impatta sul pavimento alla fine del video, non è un omaggio metafisico alla cristianità quanto la descrizione di quella mancanza di autenticità che si respira attraverso produzioni televisive come quelle sopra citate. Oltre a questo, entrambi i video hanno un approccio che si lega moltissimo al flusso di coscienza nei modi in cui vengono sviluppati e sono stati costruiti. Il video per Harrison è completamente “conscio” della sua forma come video musicale. Attraverso uno stato profondamente meditativo o un viaggio psichedelico, colui che pensa, diventa oggetto stesso del pensiero, una parte del contenuto della coscienza stessa, tanto quanto i pensieri che il pensatore, ovvero il SE, si suppone abbia.  Di fatto non c’è un pensatore oltre ai pensieri stessi e il video per Harrison gioca più o meno con quell’idea, ma in termini cinematografici e con quel linguaggio, rispetto a quello della coscienza. Per me è un’indagine sulla coscienza, sulle idee intorno alla coscienza e sulla mente. Non è esplicito nel video, ma è la mia cornice. “Mercy Line” per i Modern Superstitions è diverso perché non è così “consapevole” della sua forma come video musicale, prende il via da uno show televisivo e comincia a giocare con quei confini in modo da alternare liberamente contenuti che provengono dallo show televisivo stesso e dall’osservazione di quel contesto da una prospettiva maggiormente videomusicale. Ho cominciato presto a giocare con queste idee legate alla coscienza in forma cinematica. E hai ragione, probabilmente è il tema prevalente nella mia produzione.

Harrison – it’s ok, i promise – Dir: Scott Cudmore (2016)

 

“Queen of hearts”, uno dei tuoi capolavori. Puoi dirci qualcosa sull’idea originale e sul modo in cui l’hai discussa e sviluppata insieme ai Fucked Up?

A dire il vero con loro non ho mai parlato. Sono stato contattato dalla Matador per realizzare il video, ho ascoltato l’album e letto il booklet contenuto, un vero e proprio libretto incluso all’interno di “David Comes to life”. Una storia vera e propria. Per questo ho deciso di scrivere un video che prendesse le mosse come una sorta di storia parallela rispetto al disco e allo stesso tempo fosse un compendio.  Stavo leggendo molte cose di Italo Calvino e altri scrittori post-moderni oltre ai lavori di Dave Eggers. L’approccio scelto proveniva sicuramente anche da quel mondo letterario. L’album stesso ha una forma auto riflessiva, il narratore a un certo punto diventa uno dei personaggi della storia. Per questo ho pensato che il modo migliore di realizzare il video fosse quello di legarsi tematicamente e stilisticamente al contenuto dell’album. Realizzarlo è stata una sfida ambiziosa, perché avevamo un budget davvero ridottissimo, una testimonianza colossale per Michael Leblanc, che lo ha prodotto e anche per le persone che ci hanno lavorato, tra cui Nobu Adilman che ha curato la direzione musicale oltre a Ian McGettigan che ha registrato il suono e lo ha mixato.

“Queen of Hearts” ha cambiato qualcosa nella tua vita e nella tua carriera?

Credo proprio di si, perché è il video con cui avrei voluto cominciare la mia carriera come regista di video musicali e che avrei voluto mettere all’inizio della mia filmografia come video di Scott Cudmore. Si trattava della collaborazione artistica più importante, a quel punto della mia carriera, per questo è più grande se lo si guarda anche da questa prospettiva, quindi più articoli, recensioni, considerazione, attenzione. Per me fu un salto colossale, assolutamente.

Credo che “Queen of Hearts” contenga l’intera storia del video musicale e il suo stesso spirito, se lo intendiamo come continua ibridazione di numerose forme tra cui la performance, la narrazione, l’attitudine e la connessione con il cinema sperimentale, la visione, la coreografia. Che ne pensi?

Non cercavo consciamente di fare quello che dici, ma credo anche che tutti gli elementi che citi, siano ben presenti nel video

Fucked Up – Queen of Hearts – Dir: Scott Cudmore (2011)

 

Grace on a hill” per i Wooden Sky è un altro pezzo di storytelling per un formato tradizionale che hai contribuito a cambiare radicalmente: la performance live, che tu qui trasformi inserendoci una storia sviluppata attraverso le cinque parti pubblicate. Ci parli dell’idea e del making?

Ho pensato che potesse essere interessante piegare lo stile delle live performance in una mini narrativa. Ero in contatto amichevole con i Wooden Sky da molto tempo e insieme abbiamo fatto molte live performance. Volevano girate alcuni video live in questa grande chiesa, ho accolto il concept e ci ho aggiunto questo ulteriore livello narrativo. La mia amica Mathilde ha collaborato e abbiamo fatto tutto in una notte, davvero ambizioso se pensi che si tratta di cinque canzoni.

 

A proposito di performance. Trovo incredibilmente divertente “holding on to something”, il video che hai realizzato per Parlovr. La tua attenzione per i ritratti intimi rimane intatta, ma allo stesso tempo sembra una parodia dei video performativi…..

Ahahahah, non lo so. Non penso che fosse un’idea così consapevole. Onestamente l’intero video è stato sviluppato mentre lo facevamo. Un’invenzione al volo, sul momento. Voglio dire, se il tizio che si trasforma in un cristallo è un elemento ovviamente pianificato, tutto il resto è improvvisazione. Mi piacciono molto in questo senso le espressioni del volto e l’esagerazione delle stesse.

Parlovr – Holding on to something – Dir: Scott Cudmore (2012)

A proposito di ritratto, quello che intendo come “ritratto dinamico” è ben espresso da un video come “The Devil and the dove” che hai girato per Sarah Slean. Hai questa abilità di congelare l’istante prima o improvvisamente dopo l’evento. Quindi la qualità del tempo e la presenza di un gesto semplice capace di raccontarci una storia intima. Puoi raccontarci il tuo rapporto con il paesaggio e il documentario, ti chiedo questo pensando al tuo lavoro con la popolazione di Pouch Cove, nel Newfoundland, dove appunto hai girato e prodotto il video per la Slean.

Mi interessa la capacità del cinema di enfatizzare i più piccoli gesti e i momenti minimi. Una delle cose più potenti del cinema. Adoro filmare semplicemente volti che non devono fare niente. Certe piccole cose, come un mezzo sorriso, sono le più grandi nel cinema. Più grandi del pezzo più grande di un set. Per questo ho cercato di minimizzare al massimo il livello narrativo in varie direzioni, cercando di catturare piccoli gesti, sguardi, momenti. In molti casi non parto da una storia e sicuramente è stato così con il video girato per Sarah Slean.  Nessuna storia, nessun dispositivo narrativo, solamente le persone, la popolazione di Pouch Cove. Naturalmente c’è una connessione tra le persone e il paesaggio. La natura e l’ambiente.

Nel 2012 hai realizzato due video che amo particolarmente e che credo provengano dalla stessa ispirazione, anche se l’approccio è differente. Il primo è lo sporchissimo e realistico “Teenager” per i Bank Account. Il secondo è “Lost in the light” per i Bahamas. Entrambi “registrano” una performance ma all’interno della stessa tu cambi la prospettiva, spostando l’attenzione verso i dettagli che sono usualmente tagliati fuori . Per te è importante mettere l’osservatore dentro e allo stesso tempo, fuori dalla canzone?

Si penso che ciò di cui parli sia un’altra estensione di quello che dicevo prima sull’osservatore e l’osservato e sul fatto che sia un’illusione che ci sia un osservatore oltre a ciò che viene osservato. Sono tornato su questa idea molte volte durante il mio lavoro, cercando nuovi percorsi per esprimere questo nel contesto dei video musicali. Tutti e due i video di cui parli erano performativi, ma cercavo di trasformarli dalla prospettiva del performer invece che da quella della camera.

Bahamas – Lost in the light – Dir: Scott Cudmore (2011)

“Wasted” e “We Blanket”, entrambi realizzati per Metz, sono due ritratti non convenzionali. La vita delle persone, osservata come se tu fossi un fotografo di strada o mentre hai la possibilità di prelevare dal flusso della vita, dettagli non convenzionali, come nella fotografia di Diane Arbus per esempio. Ecco, questa mi sembra una tua costante e in questo caso sembra che la percezione stessa sia corrotta dal modo in cui noi fruiamo le immagini attraverso i dispositivi dell’era digitale. Che ne pensi?

Questa è l’idea che c’è dietro “Wasted”. Assolutamente. C’è l’idea della “persona” che utilizziamo per definirci nell’era digitale. Naturalmente c’è anche un gioco parodico sulla ritrattistica famigliare, nello stile Wal-Mart. “Wet Blanket” è lievemente differente, in un certo senso almeno. Si tratta dal mio punto di vista della versione aggiornata e migliorata di “Kid”. Più realizzato e compiuto, ma comunque sempre legato ai temi di alienazione e orrore. Penso di aver trovato una via migliore per esprimere questi temi rispetto ai tempi di “Kid”.

Metz – Wasted – Dir: Scott Cudmore (2013)

“Lariat” per Stephen Malkmus è un incredibile esperimento sulla disconnessione tra musica, storytelling, testi e sottotitoli. Le immagini e la musica sembrano raccontare una storia differente anche se il sentimento che li tiene insieme è legato alla differenza tra essere e apparire. Puoi raccontarci qualcosa del video?

Più di altri, questo è un video sulla decostruzione e lo smantellamento della forma video musicale. L’idea è legata a qualcuno che semplicemente ti dice i testi della canzone. Concettualmente è stato il punto di partenza. Ho nuovamente coinvolto la mia amica Mathilde che recita nel video insieme ad un gruppo di amici, incluso mia moglie e abbiamo girato tutto in un pomeriggio a Toronto. Ci siamo divertiti un sacco

Stephen Malkmus and the Jicks – Lariat – Dir: Scott Cudmore (2013)

 

Birthday” per i Royal Canoe, “Mexican aftershow party” per Kevin Drew e il bellissimo “hot dreams” per Timber Timbre hanno molte cose in comune. Sono elegie, tragedie, commedie, sul gender e la sessualità. In che modo scegli gli attori dei tuoi video, te lo chiedo perché la vita comune e i volti comuni, sono davvero il cuore della tua arte…

Non ho un metodo univoco per realizzare un cast. Si avvicina maggiormente a riconoscere ciò che si cerca quando lo si vede, c’è un livello di ineffabilità quando si cercano le persone adatte, ma assolutamente è come dici,  cerco persone che credo possano incorporare totalmente un ruolo. Spesso adatto proprio il ruolo e il progetto in modo convergente con il cast. Si tratta di un aspetto molto importante per me. In un certo senso è un processo a ritroso.

Timber Timbre – Hot Dreams – Dir: Scott Cudmore (2014)

In “Dancehall domine” che hai girato per i The New Pornographers sembra che tu citi il Michael Gondry di “Let forever be” ma con un approccio differente. Puoi raccontarci l’idea per questo video e le tue intenzioni quando lo hai realizzato?

Volevo fare semplicemente un video pop, sentivo di non averne mai fatto uno propriamente detto prima di allora, per questo si è trattato di un flusso di coscienza di “idee pop”. Questo senza trovarci un senso, doveva essere una sequenza di immagini connesse spiritualmente con la canzone ma niente di più. Credo sia vicino allo spirito di quello che si debba intendere come “pop”, nei termini di un video musicale ovviamente. Ovvero, l’immaginario connesso solamente con il brano in termini spirituali, un senso emozionale del tutto ineffabile, ma niente affatto letterario.  Questa è l’idea principale dietro al video, qualcosa che ancora sono interessato ad esplorare. La spiritualità pop.

Ancora Diane Arbus in “Grand Canyon” per Timber Timbre. Elegia sulla differenza e sul destino. La scelta mi sembra quella delle immagini sinestetiche che lavorano con la memoria invece di costruire una storia tradizionale. Commovente davvero…

Davvero molto difficile per me parlare di questo video, ovvero raccontarlo a parole. In quel periodo ero molto vicino all’idea di non dare un indirizzo al flusso di coscienza, tranne scrivere sulla musica con uno stile legato allo stesso, senza alcun tentativo di contestualizzazione. Naturalmente il contesto emerge sempre e comunque. Sono molto interessato al viaggio dentro l’inconscio, anche quello collettivo, e cerco di realizzare qualcosa che ne sia il veicolo. Al centro del video credo ci sia la rappresentazione di quello che siamo realmente dietro la proiezione personale, la proiezione del nostro ego. Specialmente quelle persone che tendono all’immagine di Hollywood o che si modellano per propositi esteriori. Quando l’ego viene fatto a pezzi, chi siamo, qual è il nostro SE? C’è una certa unità cosmica tra tutte le cose e questo video credo che in fondo parli proprio di questo. E’ il mio primo video davvero spirituale.

Per i Teenager hai realizzato “hot rods at the loser convention”. La bassa definizione è spesso coinvolta nei tuoi video, talvolta come uno strumento per richiamare la memoria o per produrre documentazione diretta, in altri casi per interagire con differenti livelli di realtà. Che significato ha per te la bassa definizione?

Mi interessa molto il modo in cui i formati cambiano la percezione. Prova a filmare la stessa cosa con cinque formati differenti e non otterrai mai la stessa emozione, guardando le cinque versioni. E’ un aspetto curioso e non è facile da fissare. Più volte ho giocato con questa idea.

“Party line” per Belle & Sebastian. Una riflessione sul tempo e la memoria. Chiara ed enigmatica allo stesso tempo, almeno dal mio punto di vista…

Tutto il video si riconduce al concetto di cui ti parlavo prima. La creazione di diverse esperienze emozionali attraverso diversi formati e il modo in cui utilizziamo questi per relazionarci con la memoria e il nostro modo di percepire la realtà. Ovvero, come la nostra realtà esterna può diventare un riflesso diretto di uno stato interiore. Per esempio, durante l’esperienza psichedelica è un aspetto che diventa apparente. Percepiamo immediatamente il nostro stato interiore per come si manifesta nel mondo esterno della percezione visiva, anche più della percezione visiva stessa. Può sembrare una concettualizzazione arbitraria rispetto a questo video, ma davvero è l’idea da cui è partito. Penso che i formati siano una rappresentazione davvero interessante di questo concetto, perché causano un effetto molto simile.

Belle & Sebastian – Party Line – Dir: Scott Cudmore (2015)

Mi sembra che “Vision’s” per gli Absolutely Free vada nella stessa direzione di “Teenager”  e “Lost in the light” anche se con approccio e tecniche diverse. Improvvisamente personaggi e storie penetrano la performance e sconnettono la visione dalla stessa. Qui mi sembra che il risultato sia più freddo e matematico, come se il tuo interesse primario a questo giro fosse quello della video pittura, colori ed elementi costitutivi inclusi. Stessa cosa per quanto riguarda “Sarsfest”, il video che hai fatto per LIDS, più astratto e ponendo maggiore attenzione alla ripetizione dei patterns invece che ai personaggi…

Tematicamente è identico a “Lost in the light” e a “teenager” ad eccezione del fatto che in questo caso non è raccontato dalla prospettiva del performer. Si tratta di un lavoro di ossevazione più marcato. Volevo fare qualcosa che visivamente avesse un impatto psichedelico mentre continuavo a giocare intorno al concetto dell’osservatore e di ciò che viene osservato, rispetto a quello di cui abbiamo parlato sul  filmare una performance.

I video musicali sono stronzate”. Cito uno statement da uno dei miei video preferiti, in assoluto. Quando l’hai concepito era un gioco nonsense o c’era qualcosa di più, come per esempio una sorta di manifesto sulla realizzazione dei video, contro gli stereotipi industriali?

Definitivamente. Si tratta di uno statement che è contemporaneamente vero e falso. Nonsense, ma anche il centro dell’intero video. E ancora una volta è un modo per il video di commentare se stesso.  Il monologo interiore del personaggio nel video musicale è anche il contenuto del video stesso, colui che pensa e il pensiero. L’illusione che siano due cose separate.

Rispetto al video di cui stiamo parlando, che è Snakehead per i Dilly Dally, hai fatto una scelta simile in “How love begins” per Dj Fresh & High Contrast. Per prima cosa hai scelto un formato identico, il 4:3 e anche il movimento “scrub” che muove le immagini, mi sembra sia ricorrente in alcuni tuoi video. Che cosa ti piace di questa tecnica?

Non lo so esattamente, so che mi piace. Mi piacciono certe complessità del montaggio digitale. Dovendone fare molto e anche provando una certa noia durante le sessioni, cominci a giocarci intorno. Probabilmente mi sono divertito molto con queste forme di cazzeggio, come il video scrubbing, tanto da chiedermi se non fosse il caso di utilizzarle. Stessa cosa per il 4:3 , è un formato che adoro. Forse perché è differente e non si è visto in circolazione per un po’. Non cosi spesso e normativamente come il 16:9. Talvolta influisce ovviamente sul linguaggio o al limite sul modo in cui viene sottolineato.

“Century”, il video che hai realizzato per Feist ritorna a quella battaglia tra i sessi che ha raccontato in “Queen of hearts”, ma con un’interazione più diretta. Prima di tutto hai scelto ancora una volta il 4:3 e un punto di vista più vicino al cinema documentario. Un rovesciamento di “Queen of hearts”?

Non pensavo davvero a “Queen of Hearts” quando ho realizzato “Century”, ma capisco e colgo il senso di quello che dici. L’inquadratura credo sia costretta e contenuta nel video di “Century”, così come i ballerini confinati dalle dimensioni del frame. Non avrebbe dovuto essere libero come con un’immagine panoramica. Dal mio punto di vista non è una battaglia tra sessi, è più in generale legato al concetto di tutti i conflitti. Come esseri umani abbiamo una percezione limitata legata ad un modo di intendere dualistico: sopra e sotto, avanti e indietro, destra e sinistra. Non percepiamo l’unità di queste cose, ovvero che alto implica anche basso, che avanti implica indietro e che sinistra implica destra. Niente esiste senza l’altro. Penso che questo riguardi il nostro modo di percepire la realtà. Buono e cattivo, noi e gli altri, interiore ed esteriore…sono illusioni della percezione concepire tutte queste cose come opposti. O forse un limite della nostra percezione stessa. “Century” riguarda la pienezza e la trascendenza del dualismo nell’unità. Il numero di danza è un simbolo potente di questa stessa pienezza. I due lati della performance sono in conflitto  l’uno contro l’altro anche se sono parte dello stesso movimento, se l’altro lato non esistesse, non ci sarebbe alcun movimento. Una danza Yin/Yang (ride). Non c’è una dimensione politica in questo, ci ho solo pensato a lungo, considerando quanto sia polarizzata la nostra società, proprio in questo momento. Più questo accade, più ci troviamo in una posizione disarmonica con gli altri, con noi stessi, con la natura. E’ una situazione pericolosa. Dobbiamo considerare che nel tentativo di distruggere l’altro lato, distruggiamo noi stessi

Puoi raccontarci qualcosa sul cameo di Jarvis Cocker?

Jarvis è nella canzone, questo è il motivo principale perché è anche nel video ovviamente. C’è un aneddoto che vorrei raccontare. Dovevamo impiegarlo per le riprese per circa 15 minuti. E praticamente ha volato attraverso l’oceano per venire a Toronto per soli 15 minuti di lavoro (ride) Ma è stato davvero gentilissimo, ed è stato eccitante incontrarlo. Sono cresciuto con la musica dei Pulp, durante gli anni della high school era la mia band preferita.

Feist – Century – Dir: Scott Cudmore (2017)

Su “Lemon” ho numerose domande. La prima è relativa al tuo approccio senza compromessi. Lo stesso di sempre. Sperimentale, con una grande attenzione all’umanità dei personaggi sul bordo e la scelta di impiegare tecniche diverse, talvolta in collisione tra loro. Come hai collaborato con i N.E.R.D. Hai avuto libertà totale, hai discusso con loro il linguaggio, lo storyboard o cos’altro?

Beh, Todd Tourso era il direttore creativo dell’intero progetto N.E.R.D. per questo è stato il contatto principale che ha comunicato direttamente con Pharrell e la band. Non ho sperimentato una vera collaborazione quindi. Ho semplicemente portato le mie idee a Todd per collaborare con lui

“Lemon” è probabilmente il tuo video più indirizzato in senso performativo, ma è selvaggio e diretto rispetto ai video performativi convenzionali. Come hai conservato questa qualità rituale?

Credo in modo del tutto involontario e non intenzionale. Si tratta di qualcosa che è arrivato inconsciamente attraverso il mio lavoro. Non penso troppo da questo punto di vista, sono questioni che emergono più tardi per uno spettatore consapevole. Ovviamente anche io sono consapevole di come deve essere il lavoro, ma molti dettagli non sono pensati

Sulla collaborazione con Todd Tourso e Mette Towley, co-regista e performer che è al centro di “Lemon” e “1000” ?

Todd come ti dicevo era la mente creativa legata ai video per i N.E.R.D. il concept è di fatto suo. Ho portato molte idee e altri elementi in un clima collaborativo. Un approccio molto diverso rispetto alle modalità in cui sono abituato a lavorare, anche perché non ho mai co-diretto un lavoro prima, anche quando lavoravo con LeBlanc, perché in quel caso, sebbene vi fosse una sovrapposizione di ruoli, la combinazione mi vedeva scrivere e dirigere, mentre lui produceva e girava. Per questo l’esperienza con Tourso è stata differente. Sono soddisfatto comunque ed è stato interessante guardare un’altra persona lavorare nella mia stessa posizione, un punto di vista che non ho mai occupato. Mette è assolutamente incredibile, il video di “Lemon” è assolutamente lei, le appartiene totalmente e la sua performance è ciò che determina e controlla tutto il resto, soprattutto la parte strettamente fotografica. Necessario citare anche JaQuel Knight che si è occupato delle coreografie, persona straordinaria che come noi ha portato un contributo creativo al 100% sul progetto.

“1000” interagisce con molti formati e punti di vista, senza normalizzare la visione, ma lasciando vivo il contrasto tra immagini incongrue. Allo stesso tempo interagisce con una parte maggiormente coreografata. Ancora una volta l’elemento del colore, come in molti tuoi video, connette realtà differenti….

Per me si è trattato di rendere omaggio a tutti i video hip hop e R&B degli anni novanta e dei primi anni del nuovo millennio. Ma allo stesso tempo sovvertendoli e capovolgendoli. La parte visuale arriva dalla storia di quei video, il fumo colorato, le scintille, i trucchetti in genere. Una scelta ultra appariscente, che non mi appartiene del tutto e non è certo il mio stile, ma che è trasformata da un’attitudine punk per il modo in cui è filmata e montata. Per questo il risultato non è esattamente quello di un video appariscente della scena rap. Questo è il modo in cui in un certo senso lo avevo pensato

N.E.R.D. & The Future – 1000 – Dir: Scott Cudmore (2017)

L’ultimo video che hai realizzato al momento di questa conversazione è il nuovo per Selena Gomez, anche questa una produzione ad alto budget dove rileggi il cinema di Godard, come mai questa scelta abbinata al pop della Gomez?

Perché è stato divertente, davvero. Divertente farlo con una pop star così nota, immaginandomi Selena in quel mondo. Amo il cinema di Godard e da questo punto di vista mi sono divertito a giocare con lo stile, il linguaggio, in un contesto completamente differente. Non sarebbe stato lo stesso se avessi dovuto lavorare per un artista indipendente, doveva essere qualcuno come Selena, una superstar. Senza una superstar, non avrebbe funzionato nello stesso modo

Hai girato in digitale o in pllicola?

Pellicola. Tutto è stato girato in 16mm, a parte i bits che sono stati realizzati con una videocamera miniDV

Come ti sei trovato con Selena?

Grandiosa. Davvero meraviglioso lavorare con lei. Molto umile e alla mano, con i piedi per terra. Era un po’ come uscire e girare un film insieme, non ho avuto la sensazione di una grande produzione alle spalle.

Tra omaggio e creatività, dove pensi che risieda lo stile Cudmore in questo video in particolare.

Beh, lo stile è l’omaggio stesso, naturalmente., Penso che i temi intrecciati nel video, oltre alla stessa storia, mi appartengano totalmente. Anche attraverso un omaggio è molto difficile nascondersi completamente. Ma se devo essere onesto, non ci ho pensato molto. Dovevamo divertirci prima di tutto oltre a realizzare qualcosa di bello che fosse un tributo al cinema di Godard.

Selena Gomez – Back to you – Dir: Scott Cudmore (2018)

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker, un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana e un Critico Cinematografico iscritto a SNCCI. Si occupa da anni di formazione e content management. È un esperto di storia del videoclip e del mondo Podcast, che ha affrontato in varie forme e format. Scrive anche di musica e colonne sonore. Ha pubblicato volumi su cinema e new media.

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