venerdì, Ottobre 11, 2024

Maryna Er Gorbach – La vita durante la guerra, l’intervista sulla lavorazione di Klondike

Torniamo a parlare di Klondike, questa volta con la regista Maryna Er Gorbach, che ci ha concesso una lunga intervista. Oltre ad essere un film necessario per comprendere le origini della criminale aggressione russa dell'Ucraina, il terzo film dell'artista di Kyiv rivela grande talento poetico e consapevolezza.

Dopo il Directing Award per il miglior film straniero al Sundance Film Festival 2022, la regista ucraina Maryna Er Gorbach ha fatto incetta di premi con il suo Klondike, passando per quello della Giuria Ecumenica all’ultima Berlinale, dove era presente nel palinsesto della sezione Panorama, fino al Grand Prix al Festival Internazionale di Friburgo, dove ha ottenuto anche il premio della Critica, e ai premi per la miglior fotografia e il miglior film al 41/mo Film Festival di Istanbul.

Frutto di una co-produzione tra la Turchia e la neo-nata Kedr Film, casa di produzione ucraina indipendente, sostanzialmente creata per sostenere il film da Maryna insieme al marito Mehmet Bahadir Er e al direttore della fotografia Svyatoslav Bulakovskiy, Klondike è ambientato durante il luglio del 2014 nella regione del Donetsk vicino al confine dell’Ucraina orientale con la Russia. Il film si svolge intorno alle vicende di un nucleo famigliare improvvisamente sconvolto dall’abbattimento del volo di linea MH17, precipitato a pochi metri dalla loro abitazione. Le tensioni presenti nel villaggio si acuiscono. Al centro la forza di Irka, interpretata da un’intensa Oxana Cherkashyna, in attesa di partorire un figlio e capace di opporsi con forza alla visione del mondo desiderato dal marito Tolik, costantemente assalito dalle lusinghe dei separatisti filorussi, e alle schermaglie tra questo e il fratello della donna, Yuryk. La casa, luogo ciclicamente distrutto e ricostruito, è il centro di una drammaturgia potente, diretta e allo stesso tempo simbolica, capace di sfruttare la logica del piano sequenza per rifondare continuamente lo sguardo sul mondo.

Maryna Er Gorbach – press photo

Abbiamo parlato approfonditamente del film da questa parte su indie-eye cinema e torniamo ad affrontarlo, questa volta insieme a Maryna Er Gorbach, che ci ha concesso gentilmente un’intervista via Zoom. Insieme a lei abbiamo cercato di capire le ragioni intime e profonde che l’hanno spinta a progettare questo film già dal 2014, per realizzarlo qualche anno dopo.

Klondike, oltre ad essere un film necessario, per comprendere le origini del conflitto e della criminale aggressione russa dell’Ucraina, è l’opera di una regista di grande talento e consapevolezza.

Klondike official movie website

Maryna, sono molto felice per questa intervista. Klondike è davvero un film molto bello e intenso che oltre nelle sale e nei festival, dovrebbe essere mostrato proprio in questo momento, nelle scuole. Soprattutto quelle italiane. Volevo cominciare l’intervista chiedendoti un aspetto generale del tuo film, che drammaticamente si sovrappone all’attualità di questi mesi. Klondike racconta un’intimità violata, quella di un nucleo famigliare improvvisamente dilaniato dalla guerra nel Donbas. La casa è una delle immagini centrali di tutto il film, continuamente distrutta e ricostruita. Oggi, le immagini della vita e della quotidianità Ucraine distrutte dalla violenza russa arrivano tutti i giorni sui nostri schermi. Indietro nel tempo, l’idea del film da dove nasce, da quale esigenza e perché hai scelto un punto di vista così intimo, interno ad una famiglia, per raccontare la logorante aggressione filorussa dell’Ucraina a partire dal 2014?

Prima di tutto ti ringrazio per le bellissime parole. Talvolta penso che un film non sia di per se utile a fermare tutto questo, ma alla fine è meglio che opere come questa esistano. Dal mio punto di vista è quindi importante sapere che possa avere un pubblico. Il 17 luglio del 2014 era anche il mio compleanno, ricordo quindi benissimo la catastrofe di quel giorno, perché fu un vero shock per tutti noi. (n.d.a. Si riferisce all’abbattimento del boeing della Malaysia Airlines MH17, colpito da un missile terra-aria sopra l’Ucraina orientale, al confine con la Russia. Precipitato in prossimità di Donetsk, territorio controllato dai separatisti filo russi, uccide 283 passeggeri e tutto l’equipaggio. Le vittime sono per lo più cittadini Olandesi, un numero elevato di malesi e passeggeri di altre nazionalità. La Russia nega ogni responsabilità, accusa l’Ucraina e inquina le acque già torbide dell’informazione a scopo propagandistico, cercando di manipolare l’opinione pubblica con una violenta campagna di disinformazione veicolata soprattutto sui social. Quattro anni di indagini affidate ad un ente indipendente in ambito Eurojust confermeranno la piena responsabilità russa)

Mentre il 24 febbraio 2022, potrebbe essere al centro dei film sull’Ucraina nei prossimi anni, per molti di noi il contraccolpo violento era accaduto prima, nel 2014, perché l’occupazione parziale del Donbas è cominciata in quel momento. Tutto ciò non aveva generato reazioni da parte del mondo, non erano stati pronunciati giudizi oppure si era addirittura ignorato la vicenda; ovvero tutto quello che accade quando un paese ne occupa un altro, mentre la propaganda russa imperversa, perché la propaganda russa è sempre stata pervasiva, anche all’interno della cultura. Mi ricordo il giorno in cui è avvenuta questa catastrofe internazionale dove sono morte centinaia di persone straniere. Quando dico straniere, mi riferisco al fatto che tra le vittime non c’erano né russi né ucraini. Io ero ad Odessa in quei giorni, e tutti noi ci siamo chiesti cosa stesse accadendo. Devono avere impiegato missili, armi pesanti, per causare tutto ciò, ci dicevamo.
Ma da un altro punto di vista, era un messaggio per tutto il mondo. Sin dall’inizio era chiaro che si trattava di un errore, a partire dalla reazione di Igor Girkin, meglio conosciuto come comandante Strelkov (n.d.a ex capo delle operazioni militari filo-russe nel Donbas) che dichiarava l’abbattimento di un aereo ucraino sul loro spazio aereo. Improvvisamente quell’aereo era Malese. Per molte persone del posto, ma anche per organizzazioni politiche e gruppi di matrice anarchica, era il segno di un grande pericolo globale, e che il mondo non era più al sicuro. Per noi, ovvero per le persone e gli amici con cui ero in contatto e con cui ho avuto modo di parlare in quei giorni, era chiaro che il nome dei criminali responsabili del disastro dovesse essere fatto senza alcuna riserva: il missile era stato sparato dai confini russi contro quelli ucraini e contro ogni legge. Questa informazione doveva esser diffusa a livello internazionale in modo che il mondo reagisse, perché le vittime erano europee, non erano ucraine o russe. In due anni mi sono accorta che niente di tutto questo era accaduto, tanto da chiedermi il perché dei nuovi accordi tra Russia e Germania. Per me equivaleva esattamente ad ignorare. Quando sei in mezzo ai fatti, i documenti, le persone, capisci che ignorare, dal punto di vista politico e artistico, è molto pericoloso. Ignorare ha consentito al regime russo e al potere della Federazione Russa di andare oltre. Per me si è trattata dell’ultima goccia, quella che mi ha spinto a realizzare questo film. Era il 2016, quando leggevo la stampa internazionale ogni giorno, dove si parlava degli occupanti o dell’annessione della Crimea, come se fosse un conflitto locale. Questa guerra è cominciata nel 2014 perché è stata ignorata, perché è stata descritta come se si trattasse di un conflitto locale, in modo che la comunità internazionale la considerasse come tale. Non ci sono state sanzioni, non ci sono state decisioni politiche, non c’è stato un tribunale. Otto anni di guerra in Donbas, sul confine, sono stati sufficienti per formare un esercito più forte da parte Ucraina. Molti giovani ucraini delle nuove generazioni, hanno cominciato a pensare che era necessario prepararsi alla guerra. Altre persone non credevano che la Russia avrebbe cominciato a bombardare le città, immaginavano che tutto sarebbe avvenuto gradualmente, con una penetrazione a bassa intensità del territorio. La volontà di fare un film sulle origini di tutto questo, non è solo legata alla realizzazione di un’opera con tutte le implicazioni creative e artistiche, ma anche alla necessità di interrogarsi sulla vita di una famiglia che ha vissuto al confine e che improvvisamente viene devastata da alcuni eventi. Puoi definire questi eventi come un conflitto locale, ma ancora una volta pongo questo interrogativo, è davvero un conflitto locale?

OXANA CHERKASHYNA & SERGIY SHADRIN in una scena di Klondike

Puoi raccontarci la storia produttiva del film? So che hai fatto un duro lavoro per trovare i finanziamenti, che Klondike è una produzione totalmente indipendente e che non hai avuto alcun sostegno Europeo, è così?

Diciamo che è molto stimolante la fase del reperimento fondi. Per suscitare maggior interesse da parte di finanziatori internazionali hai bisogno di affrontare temi globali, che non abbiano un respiro semplicemente locale, ma possano essere appetibili per un pubblico internazionale. La vicenda dell’MH17 aveva un peso decisamente internazionale, ma è stato del tutto naturale all’inizio della lavorazione rivolgersi ad alcune realtà ucraine. Ci hanno detto che l’argomento era troppo politico, ponendoci una serie di domande sulla fattibilità e sul budget relativo alle necessità di rappresentare la catastrofe aerea, c’erano quindi degli ostacoli che potevano essere di varia natura, politici, legati al rischio economico, oppure anche perché magari non credevano al progetto, è del tutto normale quando ti rivolgi a grandi case di produzione. Una seconda casa di produzione ucraina ci ha detto che era troppo presto per parlare di questa guerra, e che c’era bisogno ancora di tempo. Nel 2016 non abbiamo ottenuto alcun supporto, ma in due anni abbiamo capito che era necessario fondare una nostra casa di produzione e quindi assumerci le responsabilità diretta dei risultati. Abbiamo quindi pensato che fosse il momento di cercare forme di co-produzione, perché eravamo convinti che l’argomento avesse una portata internazionale. Tutto il controllo della produzione artistica siamo riusciti a gestirlo interamente con il budget di cui disponevamo, curando anche tutti gli aspetti di sicurezza legati al coronavirus. Attraverso Eurimages avevamo trovato una nazione disposta a mettere un contributo per completare la produzione, ma era decisamente molto basso. Allora abbiamo pensato a questa casa di produzione turca, la TRT, che ha recentemente contribuito al nuovo film di Ruben Östlund, Triangle of Sadness e che aveva co-prodotto Quo Vadis, Aida? di Jasmila Žbanić, oltre ad aver collaborato alla produzione dei miei progetti precedenti (n.d.a. Omar and us, Sev Beni). Da loro abbiamo ottenuto un supporto veloce. Abbiamo avuto la fortuna di poter coinvolgere il compositore georgiano Zviad Mgebry, che ha lavorato per dieci mesi alle musiche per il film e con cui mi sono confrontata spesso via Zoom sempre a causa delle restrizioni imposte per il coronavirus.

A proposito delle locations del film. Quali difficoltà hai incontrato per organizzare le riprese e il set?

A causa delle restrizioni imposte per il coronavirus, è stato difficile anche per me volare da Istanbul a Kyiv, con l’aeroporto a un certo punto completamente chiuso. In qualche modo avevamo preventivato possibili provocazioni sul set, ma alla fine nessuno si è preoccupato di noi, credo sempre a causa del coronavirus. Quando sono arrivata in Ucraina, siamo riusciti a mettere insieme il meglio dell’industria creativa, anche perché nessuno stava lavorando, e abbiamo investito subito per la costruzione del set con il supporto materiale del nostro partner turco, perché in Ucraina c’erano diversi problemi con i budget destinati al cinema, e non potevamo aspettare che passasse l’estate. Abbiamo ricevuto un grande aiuto da tutte le persone coinvolte, con un alto livello di motivazione, questo certamente per la necessità di raccontare quello che stava accadendo in Ucraina, ma anche perché tornare a lavorare con grande passione in un momento difficile è stato importante per tutti. Non solo il privilegio di coinvolgere artisti di talento quindi, ma la possibilità di condividere una grande energia. Volevamo ottenere il massimo, fare del nostro meglio e abbiamo trovato una coesione che ha rappresentato un momento davvero speciale per tutte le persone della troupe.

OXANA CHERKASHYNA in una scena di Klondike

Come hai lavorato con gli attori in una situazione così difficile e complessa, per ottenere questa oscillazione tra vita quotidiana e l’improvvisa distruzione dello spazio comunitario che il film riesce a rappresentare con grande potenza. In particolare, Oxana Cherkashyna è davvero sorprendente e molto intensa nella sua interpretazione. Come l’hai scelta per la parte di Irka?

Quando studiavo ho frequentato un master in recitazione approntato appositamente per i registi, proprio perché nelle nostre scuole di cinema insegnano anche a gestire il lavoro con gli attori. L’insegnante era di Kharkiv e ho sempre pensato che gli attori della città fossero di grande talento. Tutte le volte che da Istanbul tornavo a Kyiv, andavo sempre a teatro oppure frequentavo altri eventi organizzati negli spazi culturali della città. In una di queste occasioni, Oksana (n.d.a che fa parte del Wonderful Flower Theatre di Kharkiv ) era a Kyiv per recitare in Bad Roads (n.d.a una delle prime piece teatrali sulla guerra nell’Ucraina dell’est, scritta da Natalia Vorozhbit, messa in scena per la prima volta tra il 2017 e il 2018 e successivamente adattata per il cinema nel 2020, con la regia firmata dalla stessa Vorozhbit). Per il personaggio di Irka stavo cercando qualcuno che avesse un forte istinto. Ho concepito la sceneggiatura del film a partire dalla sequenza finale, sapevo quindi cosa volevo ottenere, dove volevo approdare e quale fosse il mio obiettivo. Dovevo solo costruire il sentiero per arrivare sino a quel punto e per raggiungere quell’emozione. Avevo quindi bisogno dell’energia di una donna più forte della guerra e che si potesse esprimere in modo completo nella sequenza finale, motivo d’innesco per la realizzazione stessa del film. Quindi non mi interessavano i tratti somatici o l’aspetto, ma questa forza istintuale. Quando ho visto Oksana sul palco, mentre ovviamente interpretava un altro personaggio, ho potuto percepire tutta la sua forza. Tutto questo è avvenuto prima che provassimo per la seconda volta ad ottenere il supporto della Ukranian State Film Agency. Abbiamo quindi filmato un teaser e questo è stato sostanzialmente il suo casting con noi, perché sapevo già che era un’ottima attrice, ma era necessario comprendere alcuni aspetti, considerate le differenze sostanziali tra cinema e teatro; gli attori a teatro sembrano perfetti, ma è necessario vederli sullo schermo. Era perfetta e assolutamente pronta per la parte, in quel momento avevo trovato Irka. L’anno successivo, quando il casting stava per raggiungere la sua forma definitiva, considerato che la famiglia ruota sostanzialmente intorno alla forza di Irka, abbiamo fatto due mesi di prove insieme a tutto il nucleo, ovvero oltre ad Irka (Oksana Cherkashyna), il marito Tolik (Sergey Shadrin) e il fratello Yaryk (Oleg Shcherbina). Durante queste prove, non abbiamo mai messo in scena le situazioni che gli attori avrebbero dovuto interpretare durante le riprese. Abbiamo provato tutta la loro vita quotidiana prima che l’areoplano si schiantasse sulla loro casa. Quindi è stato messo in scena il loro primo incontro, il lavoro di Tolik, il rapporto di questo con Yaryk. Tutti i momenti fondamentali della vita famigliare, ad eccezione di quelli che sarebbero stati raccontati nel film. Questo ci ha permesso di ottenere lo spirito più intimo della famiglia. Quando per esempio nel film Tolik chiede a Irka a chi sarebbe assomigliato il bambino, quell’intimità è stata possibile perché già conosceva il percorso, la storia sperimentata durante le prove che l’ha condotto a vivere quel momento. Quel momento quindi diventava naturalmente tale, insieme ad altri della loro vita. Questa fase preparatoria ci ha consentito di ottenere la massima libertà nella realizzazione dei lunghi piani sequenza che costituiscono il film. Quando gli attori sono già pronti, puoi essere tecnicamente preciso e allo stesso tempo concentrarti sulle sfumature e sui dettagli; quindi tener fuori gli attori da quello che stai preparando e consentirti di aver spazio necessario per la creazione.

OXANA CHERKASHYNA in una scena di Klondike

Molto interessante quello che dici, a questo proposito e sull’utilizzo specifico che fai del piano sequenza e del travelling, mi sembra che ti consenta di cambiare il senso stesso dell’inquadratura e del racconto ad ogni movimento, come se in un solo spazio fossero compresenti più livelli di senso.

Klondike è il film dove per la prima volta ho fatto tutto da sola come regista, perché è la mia prima regia autonoma, se pensi che i film precedenti sono tutti co-diretti insieme a mio marito Mehmet Bahadir Er. Questo film ha una qualità molto personale, anche perché volevo condividere i miei sentimenti con lo spettatore. Quando per esempio mi avvicinavo all’operatore che lavorava con il dolly, gli dicevo che in base al mio respiro, doveva muovere l’apparato. Quindi non guardava nel monitor, ma aveva bisogno di percepire l’inizio del mio respiro. Tutta la stratificazione e i livelli legati alla messa in scena, riguardano i sentimenti legati ai miei ricordi e alla mia vita. Quella di persone che vivono in un bellissimo paese nel mezzo dell’Europa, come se fossero in paradiso, e all’improvviso sono costrette ad affrontare uno shock violento. Allora ti trovi in una situazione che non comprendi. Cominci ad avere una serie di reazioni differenti. Poi ti ci abitui. E successivamente ti senti uno straniero, come quando gli Ucraini si sono trovati a raccontare la guerra nel loro paese in altri contesti europei e si sono sentiti delegittimati o sminuiti, scoraggiati dal parlarne. Ecco perché volevo che questa molteplicità di sentimenti arrivasse a chi guardava il film, in modo da spingerlo a provare le stesse cose: sentirsi in paradiso, provare uno shock violento e percepirsi improvvisamente disorientati. E quando fai il tentativo di condividere tutto questo, sentirsi anche come uno straniero. Indurre gli spettatori a preoccuparsi per se stessi, non solo per gli ucraini. Questo è in ogni momento del film, in ciascuna sequenza. La modalità che ho utilizzato per raggiungere i sentimenti che volevo indirizzare allo spettatore.

Mi sembra anche che il travelling ti consenta di incorporare più toni e registri in una sola sequenza. Per esempio mi ha colpito molto il modo in cui descrivi i contrasti e gli equilibri famigliari, talvolta ricorrendo a dinamiche tipiche della commedia, mentre tutto intorno è tragedia. Che sguardo aggiuntivo ti hanno consentito questi piccoli frammenti di quotidianità?

Credo si tratti dell’istinto che ti consente di sopravvivere. Per esempio, molto simile a ciò che accade durante un evento sismico. La tua casa comincia a tremare in un istante, improvvisamente non ci puoi più entrare. Poi la situazione si calma. E tutto sembra come se la vita potesse continuare ad andare avanti normalmente, come se tu fossi un momento dopo la catarsi. Ed è molto pericoloso come sentimento. L’Europa in fondo ha già cominciato a dire: non smetteranno di bombardare Kyiv, bombarderanno un po’ nel Donbas, ma non si avvicineranno così tanto all’Europa, quindi andrà tutto bene. Questo è molto, molto pericoloso.

Irka dimostra il maggior radicamento alla propria terra. Mentre la realtà mostra solo distruzione, tu la filmi sempre nell’atto ostinato di tornare verso casa. Per me, come spettatore, è un’immagine di resistenza potentissima. Per te, mentre giravi che significato assumeva?

Vedi, il cinema non può certo fermare la guerra, un artista non può farlo. Al limite può aiutarti ad individuare la bellezza, ma non può arrestare un conflitto, l’arte non può farlo. Quando ho pensato di affrontare questo argomento con il mio film, mi sono sentita fortemente coinvolta, attraverso storie, testimonianze, le esperienze di amici, ma a un certo punto mi sono sentita come se fossi una vittima. La Russia ha la bomba atomica, possiede armi pesanti, può portare razzi e ogni tipo di offensiva sul confine con l’Ucraina, può abbattere un velivolo internazionale e non le viene detto niente, intimare il silenzio a tutto il mondo minacciando una guerra atomica. Una prospettiva davvero molto pessimista per me. Mio marito, che ha co-prodotto il film, mi ha detto che avrei dovuto reagire, fare qualcosa e non chiudermi in un sentimento del genere. Da questo momento in poi ho voluto fare il film, ma doveva avere una prospettiva personale. Il film è sulla guerra in Ucraina che ho osservato, e quindi supporta l’idea di un popolo forte, che resiste. Volevo quindi qualcosa che avesse a che fare con la resistenza, perché è un sentimento molto forte in me ed è altrettanto forte nelle persone che conosco, insieme al coraggio. Questo sentimento volevo portarlo al centro del film. Ecco perché il tema della natura è una costante, il fatto che anche la bomba atomica non possa distruggere la levata o il tramonto del sole, condizioni che tra l’altro abbiamo avuto sul set ogni giorno, i due orari magici durante i quali abbiamo lavorato.

Una scena di Klondike

Ecco, a proposito di paesaggio. Questo ha un ruolo fondamentale nel tuo film. Ma è un paesaggio che, tragicamente, muta a vista d’occhio svelando paura, orrore e disorientamento. Mi sembra che tu affidi un ruolo fondamentale al contrasto tra l’idea di paesaggio come spazio identitario e la sua improvvisa mutazione in qualcosa di irriconoscibile. È così?

Dove è accaduto il disastro è un paese sul confine. Per questo volevo un paesaggio che ricreasse questo senso del confine. La vita reale e il pericolo contenuti all’interno. Non viene mai attraversato. Quando ho cominciato a lavorarci, nel 2017, abbiamo stabilito una collaborazione con l’Istituto Geografico Ucraino, e il villaggio di Hrabove, dove è caduto l’MH17, era già occupato dai russi. Non era ovviamente possibile andarci. Abbiamo quindi raccolto alcune fotografie inviateci dalla popolazione locale e L’Istituto Geografico ci ha fornito alcune mappe in modo da poter analizzare la morfologia del territorio. Abbiamo chiesto loro dove potevamo trovare location simili a Hrabove nel resto dell’Ucraina. Sono stati individuati tre posti. Uno a Kharkiv, troppo vicino alla Russia e quindi problematico per girare, da un punto di vista logistico. L’altro vicino a Vinnycja, luogo protetto come patrimonio storico, quindi molto difficile da utilizzare. Alla fine abbiamo scelto questo luogo tra Odessa e la Moldavia. In quel momento, come ti dicevo, a causa del coronavirus niente e nessuno stava lavorando e il nostro direttore della fotografia, Svyatoslav Bulakovskiy, che è anche co-produttore del film, è andato in quei luoghi in macchina, dove ci ha dormito dentro per un mese, facendo un gran lavoro e inviandoci una serie di foto. Molto velocemente abbiamo capito che era il posto giusto dove lavorare. C’era la casa, ma andava sistemata e trasformata in modo che non fosse pericolosa per gli attori e la troupe. Ma avevamo questo contesto perfetto per costruire la relazione tra il confine e la famiglia.

La corsa all’oro del Klondike è in qualche modo all’origine di tutte le narrazioni del sogno americano. Al contrario, il tuo film mostra in modo crudo l’impossibilità di qualsiasi sogno, a partire da quello più basilare, ovvero trovare un luogo sicuro per la propria famiglia. Il titolo del tuo film incorpora per te questo contrasto?

Quando abbiamo deciso il titolo abbiamo pensato fosse assolutamente adatto e credo ancora che Klondike sia stata la scelta migliore che potevamo fare. Il Donbas è un distretto industriale, pieno di miniere, ricco di gas, molti oligarchi vengono da quei luoghi e anche Brežnev era del Donbas. Ma nel film è fuori campo. All’inizio della guerra nel 2014 c’era questa definizione locale del conflitto, mi ha fatto pensare che c’erano alcune cose che non potevo mettere nella sceneggiatura. Era invece importante per me connettermi in qualche modo a quei grandi stati che sono coinvolti in azioni politiche globali. Ecco perché quando ho cominciato a pensare ad un titolo così simbolico, volevo in un certo senso portare dentro gli Stati Uniti come se mi rivolgessi ad un altro tipo di audience. Nella sequenza finale, quando vedi arrivare persone con pistole e mitra, vicini ad una casa, non ti poni più la domanda sulle origini della guerra e su chi la vince, quando ci sono le armi che penetrano una dimensione privata, in quel momento ti chiedi da dove arrivano e perché sono rese possibili in questo mondo. Si smette di parlare in termini geopolitici. Tristemente, politici come Putin sfruttano queste persone, perché non possono esser rappresentati nella creazione di un modello di vita, ma nella distruzione e nella soddisfazione raggiunta attraverso la distruzione. Tutta la propaganda russa è la celebrazione della distruzione. Ho ovviamente pensato anche alla febbre dell’oro, ma la questione riguarda anche le persone locali e le armi.

È molto interessante il modo in cui insisti su alcuni oggetti quotidiani: un televisore, un divano, la parete della casa, continuamente distrutta e ricostruita, i resti dell’aereo Mh17. Oltre alla rappresentazione delle conseguenze della guerra, mi sembra che ci sia uno sguardo poetico e pittorico molto forte, sospeso tra realtà e surrealtà…

Si, un aspetto molto importante per me era quello di creare una storia che fosse quasi come un miraggio. Talvolta sembra che questo non possa accadere per davvero, mi riferisco al modo in cui la guerra possa generare anche una reazione di incredulità. C’è un momento in cui Irka e Tolik stanno guardando le notizie alla TV. In realtà ho chiesto fosse messo un green box da riempire con alcune animazioni successivamente. Quando i tecnici mi hanno chiesto perché, ho detto loro che avevo bisogno che le news fossero viste dallo spettatore effettivo, solo al cinema, non da Irka e Tolik. Possiamo quindi costruire una riproduzione 1:1 dell’aeroplano distrutto sul set, ma l’evento è reale. Così come la reazione o l’assenza di reazione da parte di una comunità è essa stessa reale.

OXANA CHERKASHYNA & SERGIY SHADRIN in una scena di Klondike

Chi riesce a dare ancora un senso a questi resti e a questi relitti è Irka e la sua forza di volontà, fino all’estrema scena del parto. Come hai concepito e ideato questa incredibile sequenza e come l’hai sviluppata sul set insieme a Oxana Cherkashyna?

Ovviamente non posso parlare di tutti i segreti di una sequenza (ride). L’effetto che ottieni nella sequenza conclusiva, è in qualche modo preparato dall’intero film, ed è questo il motivo per cui ti arriva. In buona sostanza hai il tempo di trattenere il respiro. Oksana, nell’interiorizzazione del personaggio di Irka, ha ben chiaro il suo obiettivo. A guidarla è l’istinto di una donna incinta, qualsiasi cosa le accada intorno. Ha bisogno di tutto ciò che la circonda, ha bisogno che la casa sia ricostruita tutte le volte, nel modo migliore possibile. Qualsiasi cosa faccia nel film, ha il suo obbiettivo. Ed è la chiave per interpretare la sequenza finale.

In Klondike la guerra entra nelle famiglie e le divide, ma in qualche modo sembra che le radici siano più forti delle provocazioni e della violenza scatenata dai separatisti russi. La morte di Tolik e Yuryk in fondo ci dice che alla fine neanche Tolik è diventato uno schiavo.

Assolutamente. Senza fare un vero e proprio spoiler di quella sequenza, l’aspetto importante è che ogni famiglia attraversa forme di conflittualità molto diverse, dalle regole della convivenza all’accordo sul cibo. Quando ci riferiamo ad una conflittualità quotidiana è come sperimentare una dimensione locale, minima, che coinvolge la tua struttura famigliare. I problemi di Yuryk con Tolik precedono la guerra e quindi si verificano anche durante la stessa. I loro problemi non riguardano questioni politiche, sono due uomini che in qualche modo litigano per conquistare l’attenzione di una donna.

OXANA CHERKASHYNA in una scena di Klondike

Che progetti hai per il futuro di Klondike, in quali paesi sarà distribuito il film?

Ha già una distribuzione in Brasile, dove ha avuto una buona accoglienza, sarà quindi distribuito in Germania, Benelux, Polonia, probabilmente in Italia. Dovrebbe essere distribuito negli Stati Uniti, anche in base a quelle che potrebbero essere le nomination dell’Academy Awards per quanto riguarda l’Ucraina. C’è un po’ l’idea legata ai potenziali spettatori che negli ultimi 100 giorni hanno guardato le news sulla guerra in Ucraina, potrebbero non essere in grado di guardare un film sullo stesso argomento. A questo tipo di dubbi forse dovremmo rispondere che Klondike non è un film sulla guerra, ma un film sulla vita in Ucraina, durante la guerra.

Attualmente, nella situazione tragica che l’Ucraina sta vivendo, le produzioni cinematografiche del paese che contraccolpo hanno subito e in quali modi lo stanno affrontando?

Molti film si trovavano già in fase di post-produzione. Ovviamente non possono accedere ai fondi destinati, perché in questo momento tutto il budget serve per la difesa dell’Ucraina. Parlando con altri artisti, non ci sono aspettative al momento legate al supporto di finanziamenti culturali ucraini, ma ci sono paesi come La Lettonia, la Polonia, la Germania, che possono stanziare fondi per la post-produzione e per lo sviluppo, ma non credo sia così facile supportare la produzione tout court. Il vero quesito per me è cercare di capire il ruolo della comunità culturale europea, perché se comprendono che c’è una guerra nel continente, gli interventi necessari per aiutare gli artisti che si trovano in mezzo ad una guerra affinché possano proseguire il proprio lavoro, dovrebbero essere una priorità soprattutto per la stessa Europa. Sarebbe quindi molto importante che ci fosse un supporto per i registi Ucraini, affinché possano sviluppare e produrre i propri progetti nei paesi europei.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media.

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