martedì, Marzo 19, 2024

Surf City – Jekyll island: la recensione

Difficile resistere al basso di Beat The Summer Heat, un incipit che già dal titolo, chiarisce cosa ci aspetta durante l’ascolto dell’ultimo album dei Surf City, l’episodio più conciso e potente nella carriera della band neozelandese e quello più ottimizzato entro la forma pop.
Rispetto al precedente We Knew it was not going, la formula alchemica che mescolava in parti uguali psych pop, shoegaze e noise è rimasta intatta, ma con la volontà di tenere a freno le derive più visionarie senza per questo sopprimerle; l’ingrediente noise più improvvisativo lascia il posto alla costruzione di un pop lisergico spaccato a metà tra le estati californiane dei ’60 e il noise-pop anglo-americano dei ’90, tutti elementi già battuti dai Surf City ma che per la prima volta assumono una forma più solida consentendo al combo di Auckland di riconnettersi ad un pezzo di storia locale molto preciso, quello di etichette come la Flying Nun, esempio ottantiano di post-punk contaminato con la psichedelia, dal quale i nostri desumono un certo uso delle chitarre riverberate.

Jekyll Island è stato realizzato dai Surf City dopo un lungo viaggio tra gli States, la Corea e l’India e in questo senso può essere considerato come un travelogue alla ricerca di un non luogo, uno spazio di transizione identificato dalla title track, vera e propria “psicosfera” narcolettica ispirata all’ambiente selvaggio di una delle Golden Isles nello stato della Georgia, terra separata dal mondo e conservata nella sua forma primordiale. Fuori dal paradiso, il suono dei Surf City oscilla tra forme meditative e attacchi sonici più decisi, ricordando in certi momenti le chitarre cronometriche e stratificate di Dom Mariani per gli australiani Stems, influenzati a loro volta dal pop di The Easybeats, la psichedelia di The Chocolate Watchband e il proto punk di The Standells, tutti elementi che in qualche modo caratterizzano anche il suono dei Surf City.

Oltre all’opening track, gli episodi più appiccicosi sono Spec City, la rumorosa Hollow Veins, il pop Creation style di What they need sbilanciato tra shoegaze e fuzz rock, Leave your worries, forse la traccia più vicina agli Stems.

A chi contesta ai Surf City la zavorra dell’inattualità sarà bene ricordare che band come The Verlaines, gli stessi Stems,  The Primitives (quelli di Coventry), gli Spaceman 3, condividevano, lungo gli scorsi tre decenni, territori molto simili con la medesima intensità, l’unico fattore importante da considerare.

Ugo Carpi
Ugo Carpi
Ugo Carpi ascolta e scrive per passione. Predilige il rock selvaggio, rumoroso, fatto con il sangue e con il cuore.

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