John Grant – Pale Green Ghosts: tra spleen e automazione

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Registrato interamente a Reykjavik insieme a Biggi Veira dei seminali Gus Gus, il collettivo islandese che a metà degli anni ’90 contribuì ad una rilettura non convenzionale della musica House, Pale Green Ghosts abbandona per la maggior parte della sua durata lo sfondo folk-pop settantiano di Queen of Denmark approntato dai Midlake, a favore di un’elettronica che sembra figlia del decennio successivo.

La title track, diffusa qualche mese fa con un video diretto da Alex Southam, fondatore del collettivo di artisti visuali noto come oof video, rivelava da subito l’apparente distanza di John Grant dalla precedente incarnazione con una brusca riduzione di tutti gli elementi romantici, ben nascosti all’interno di un’armatura strumentale volta a recuperare in senso quasi narrativo, una lunga stagione di synth pop alimentata da molteplici riferimenti sincretici e che si avvicina, almeno in termini attitudinali, al John Cale nichilista 83/84/85 di album come Caribbean Sunset, Music For a New Society, Artifical Intelligence, esempi di “elettronica brutta”, orientata all’erosione del dispositivo “pop” in una forma residuale, quasi astratta, generata dall’alienazione e da una serie di dolorose dipendenze.

Che il dolore sia un trasduttore di creatività per John Grant, non è affatto un mistero, a quello che è stato il suo difficile percorso identitario, si aggiunge il recente accertamento diagnostico di infezione da HIV, diventato adesso parte del “romanzo di formazione” del musicista Americano, e collocato in una relazione con la scrittura dei brani, che sembra quella di un narratore. Cambia lo sfondo sonoro, ma le intenzioni si legano alla creazione di una drammaturgia personale e autobiografica, allo stesso tempo posta a distanza da una serie di procedimenti “ironici” e dissimulativi.

I sei minuti di Pale Green Ghosts sono in fondo la cellula fondante di tutto l’album; una propensione maggiormente strumentale rispetto al passato, un approccio fortemente minimalista anche nell’elaborazione dei testi, la tendenza a costruire delle “lullabies” scarnificate e circolari, e d’improvviso il muro dei synth che viene spezzato da interferenze orchestrali che potrebbero essere state scritte da John Barry o da Laurie Johnson; insomma, elementi in contrasto tra di loro che sembrano dialogare e scambiarsi collocazione semantica.

È il caso di una traccia come You Don’t have to, dove il romanticismo al limite del credibile tipico di Grant emerge attraverso un doppelgänger che replica quel melodismo decadente e allusivo rispetto a tutta una stagione di cinema classico, ripensata elettronicamente da una parte dell’immaginario degli anni ’80, dalle avanguardie storiche riviste dai Matia Bazar alle reverie nostalgiche dei Lotus Eaters, fino alla sintesi artificiale di John Foxx, che mette insieme, anche da un punto di vista iconico, espressionismo, decadentismo e le stesse istanze surrealiste che influenzano il Bowie/eno Coevo, oppure il suono sintetico dai colori romantici di Thomas Dolby (Screen Kiss, Europa and the pirate Twins) che si re-inventerà di sana pianta il pop dei Prefab Sprout.

In Pale Green Ghosts anche le tracce maggiormente legate a quello che si conosce già del songwriting di Grant (Gmf, la struggente Vietnam, la ballad in stile Carpenters I Hate this town, la barocca Glacier con un’infinita coda pianistica a là Rachmaninoff) mantengono un legame sotterraneo con l’anima più spettrale e anti nostalgica di tutto l’album, tanto da assumere una posizione interludica e allo stesso tempo dialettica con l’attacco elettronico e glaciale che costituisce l’asse spinale del nuovo lavoro di Grant, basta pensare alla scrittura “nera” di BlackBelt che diventa una versione terrifica e aggressiva della Soulful House Chicagoana della seconda metà degli anni ’80, esattamente come Sensitive New Age Guy in ambito wave, quasi avesse quell’aura claustrofobica degli Human League più oscuri, quelli di Circus of Death; qui la voce di Grant diventa progressivamente un simulacro di se stessa, perdendo per la strada tutte le caratteristiche duttili e quel crooning che la rende inconfondibile, per essere assimilata dal contesto elettronico in una terra liminale tra anima e intelligenze artificiali, che ricorda il Bowie berlinese, non tanto per le scelte sonore, decisamente distanti, ma per l’invenzione di un “mostro” sintetico tra racconto pop e ripetizione minimale, tra spleen e automazione.

Persino una rivelazione drammatica e personale come quella che fa parte del testo di Ernest Borgnine, dove John Grant racconta la sua recente lotta con l’HIV, riceve un trattamento non troppo lontano da quella scarnificazione che David Lynch compie sulla musica delle radici; aderenza e distacco, dramma e rovesciamento ironico, “I wonder what Ernest Borgnine would do / I got to meet him once and he was really, really cool” si chiede Grant dopo l’agnizione, riesumando l’immagine del vecchio attore Hollywoodiano che rifiutandosi di vedere Brokeback Mountain dichiarava: “If John Wayne were alive, he’d be rolling over in his grave” e giocando così con l’uso del motto di spirito che poneva molti episodi di Queen of Denmark su quella linea di confine tra dramma e grottesco (“I feel just like Sigourney Weaver/when she had to kill those aliens”Sigourney Weaver).

Ma questo continuo entrare e uscire dal proprio corpo, questo disperato strappo con la propria storia personale e la propria scrittura, processato per aderenza e immediatamente dopo, allontanato con violento distacco, trova probabilmente il punto più alto in uno dei tre brani di Pale Green Ghosts che vedono la collaborazione di Sinéad O’Connor; Why don’t you love me anymore? è la dolorosa mappatura di una relazione che si schianta e che in un certo qual modo allude ad una malattia interiore ben più profonda, che al solito Grant racconta con talento visionario, a tratti crudo, e subito dopo inquadrato a distanza con feroce ironia: “I keep expecting Woody Allen To come out from those dark shadows“; in questo senso il brano è una fusione tra il romanticismo più decadente del songwriter americano e l’inesorabile beat elettronico di tutto l’album, che sembra in parte provenire dai landscape urbano-sonori di Before and after science di Brian Eno.

Sinéad O’Connor lavora dietro Grant come fosse un’eco spettrale della sua voce, elaborando un progressivo incedere (“tell me why don’t you love anymore…”) quasi di matrice gospel rallentata e completamente deprivata di ogni gloria ascensionale, come le migliori preghiere capovolte, quelle che portano dritte all’inferno.