Bachi da Pietra – Quarzo (Santeria/Wallace, 2010)

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La foto sotto l’artwork dell’album è di Giulia Naldini; a completamento dello speciale dedicato ai Bachi Da Pietra su Indie-eye Network, oltre a questa recensione scritta  da Federico Fragasso, ecco un’intervista rilasciata da Giovanni Succi a Francesca Messina, con le foto di Giulia Naldini; si legge da questa parte.

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Potrei sbagliarmi, ma temo che i Bachi da Pietra non diverranno mai “il gruppo rivelazione del …” né assurgeranno al ruolo di idoli generazionali, acclamati da folle di adolescenti urlanti, come è accaduto in tempi recenti al Teatro degli Orrori. Questo perché in loro l’elemento spettacolare, secondo l’accezione del termine presentataci da Guy Debord, è totalmente assente. Ovviamente tale affermazione non vuole fornire un criterio per giudicare la qualità della loro arte, apprezzata da chi scrive così come da gran parte della critica di settore. La premessa serve semplicemente a sottolineare come Giovanni Succi e Bruno Dorella si muovano coscientemente e coerentemente lungo traiettorie che con l’esposizione di massa hanno – e probabilmente continueranno ad avere – ben poco a che fare. I Bachi da Pietra sono viscerali tanto quanto Capovilla e soci, ma alle deflagrazioni massimaliste del Teatro oppongono scelte sonore ed estetiche dettate da criteri prettamente minimalisti. Ai grandi spazi preferiscono i luoghi angusti, ai riflettori la penombra, al rumore il silenzio. Così facendo permettono all’ascoltatore di fissare l’attenzione su composizioni testualmente e musicalmente scarnificate, su suoni puri generati da un’attrezzatura ridotta ai minimi termini. Nel contesto naturalmente caotico di una sala concerti, d’altronde, come potremmo apprezzare a pieno tappeti ritmici svuotati ed asciugati, impalpabili trame armoniche originate da corde percosse col palmo della mano, voci sussurrate che si assestano appena oltre la soglia dell’udibile? Non stiamo parlando di intrattenimento, è chiaro. La sola forma di trasmissione ammissibile per questo tipo di musica è quella che intercorre tra il gruppo e l’ascoltatore in via esclusiva e personale. Se escludiamo il supporto fonografico, l’unica maniera per goderne sarebbe dunque attraverso concerti organizzati di volta in volta per singoli spettatori. Possibilmente scegliendo location consone come soffitte, ripostigli, cantine. A dirla tutta, l’audience dovrebbe avere la decenza di lasciar soli i due musicisti, limitandosi a spiarli attraverso le assi di legno del pavimento o un foro praticato nell’intonaco. Tale voyeurismo consapevole, tutto sommato, costituirebbe una perversione funzionale al godimento di confessioni troppo intime per essere apertamente condivise. Solamente sotto terra è possibile venire a contatto con la concretezza della materia, con la durezza della pietra e la nodosità del legno. Da sempre i Bachi consolidano la propria estetica sotterranea con titoli che citano elementi naturali, forme della realtà estremamente fisiche. Non fa eccezione questo Quarzo, nelle parole di Succi “il numero quattro in un cristallo liquido”. Un termine che rimanda al materiale granitico di cui si compone gran parte della crosta terrestre, ma anche alla misurazione del tempo. Un tempo, in questo caso, scandito da fasi lentissime. La violenza non manca ma è più implicita che manifesta, bisogna sapere dove andarla a cercare. L’idioma di brani come Pietra della Gogna o Notte delle Blatte, metallici e catacombali, sembra scaturito dalla torturata sei-corde di Greg Ginn, così come la poetica sofferta ed i riferimenti a forme di vita infime e striscianti non avrebbero sfigurato su un taccuino di Henry Rollins. Ovviamente, se ci limitiamo ad una misurazione dei decibel, l’impeto sonoro dei Black Flag manca del tutto. Eppure i brani sono intrisi della stessa angoscia che traspare dai solchi di My War. Secondo Ginn, i Black Flag avrebbero dovuto essere uno strumento per proporre il blues in forma estremamente personale. Tale affermazione potrebbe facilmente estendersi agli stessi Bachi. Si parla di un Blues inteso come condizione esistenziale, come afflizione dell’anima, ma che a tratti riaffiora persino a livello stilistico. Vuoi per la rudimentale attrezzatura impiegata, vuoi per la ripetitività di alcune trame, Dragamine e Niente Come la Pelle si avvicinano alla tradizione popolare nordamericana in termini ben più che ideali. Un’operazione – l’aggiornamento del genere classico secondo un qualche tipo di formula “post-…” – che pone Succi e Dorella accanto a personaggi come Tom Waits, Nick Cave o i Morphine. Persino il patto sui generis con Lucifero, ipotizzato in Non è Vero quel che Dicono, sembra in qualche modo guardare alla leggenda di Robert Johnson. Fin qui si è discusso di elementi da sempre presenti nell’impasto sonoro teorizzato dai nostri. Le novità sono piuttosto riscontrabili nell’esperimento concreto di Zuppa di Pietre, quasi una versione low-profile degli Einstürzende Neubauten: ovvero, quel che i berlinesi avrebbero potuto produrre, se invece di capannoni industriali dismessi avessero eletto a proprio campo d’azione privilegiato piccole botteghe di falegnameria. Orologeria rivisita il sound felpato in voga a Bristol vent’anni fa, ma lo rende più primitivo, facendolo retrocedere verso un’epoca in cui il campionamento non era nemmeno un progetto nella mente di Dio. Muta rivela inedite aperture melodiche, per ora appena abbozzate ed affrontate esclusivamente sul piano strumentale. Difficile trovare un termine di paragone che renda giustizia ad un gruppo del genere, nell’attuale panorama italiano. Per originalità della proposta considerata, così come per atteggiamento schivo e attitudine restia al compromesso, gli unici che reggono il confronto sono proprio quei Massimo Volume che i nostri stanno al momento accompagnando in tour lungo la penisola. A ben guardare peraltro, gli inusuali arpeggi di chitarra che si ascoltano su Morse potrebbero essere in qualche modo riconducibili alla tecnica immaginifica di Egle Sommacal, mentre il canto-non-canto di Succi probabilmente deve qualcosa allo stile di Clementi. Se le cose stanno effettivamente così l’occasione è propizia, e stiamo assistendo ad uno splendido passaggio d testimone.
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