domenica, Ottobre 13, 2024

Primavera Sound 2010, un report in tre parti – 1/3

Il primo approccio con il Primavera Sound non è particolarmente positivo: le prime persone con cui mi trovo ad avere a che fare sono i buttafuori dell’Apolo, che tentano di disperdere la fila in coda all’ingresso del party di apertura che si svolge la sera di mercoledì con  i Los Campesinos! sul palco assieme a due nuovi gruppi Wichita, First Aid Kit e Peggy Sue. Il locale è infatti pieno, sia per il richiamo del concerto, sia per la possibilità di mettersi in regola con biglietto e braccialetto del festival senza stare in coda sotto il sole il giorno seguente. La gentilezza degli addetti alla security è inversamente proporzionale alla loro stazza: non resta che andarsene, venendo anche privati del diritto di stazionare su un pubblico marciapiede. In certi casi è meglio non mettersi a discutere di Costituzione e di Carte ONU. A partire dal giorno seguente tutto però migliora e scorre per il verso giusto, senza in pratica nessuna pecca da parte dell’organizzazione, in grado di gestire senza problemi un’enorme macchina comprendente cinque palchi (oltre ai secondari), servizi di ogni tipo e un’affluenza di almeno trentamila persone in occasione del concerto dei Pixies. A dare ancor più valore alla loro capacità, il fatto che tutto sia sempre apparso a misura d’uomo, senza code estenuanti nè problemi di ordine pubblico. Mi pare giunto il momento di parlare anche di musica, finalmente.

Il primo giorno inizia sotto il Pitchfork Stage, dove alle 17, ad inaugurare la tre giorni festivaliera, ci sono i Biscuit. Sono in quattro, sono catalani, hanno passato i 40 anni e si divertono un sacco a suonare su un palco così importante. Riescono anche a far divertire noi che li guardiamo, con il loro rock elettrico derivato da Who, Beatles e Small Faces, senza troppe pretese ma in grado di regalare canzoni apprezzabili.

Dopo di loro è il turno dei Sic Alps, esponenti dell’ondata noise lo-fi garage che imperversa nell’underground americano da un paio di anni a questa parte. Riesco a reggerli per non più di due canzoni: la loro voglia di dimostrare nelle melodie, nei suoni (non aiutati dall’acustica pessima di quel palco) e nell’atteggiamento di essere una via di mezzo tra dei freak e degli hipster mi urta abbastanza.

Meglio quindi cambiare location e dirigersi verso il Vice Stage. Lì mi faccio scivolare addosso il finale del set di Emilio José, giovane spagnolo che fa canzoncine indie-folk con una tastierina e una voce flebile, nell’attesa del primo evento memorabile del festival. Ci sono infatti i Monotonix. La band israeliana non delude le aspettative, con uno show basato principalmente sul caos e il contatto diretto con il pubblico, una specie di via di mezzo tra l’animalità di Iggy Pop, senza l’aura maledetta, e l’approccio live dei Lightning Bolt, con minor tecnica ed inventiva. Per quasi un’ora chi assiste a un loro concerto si ritrova a dover seguire i colpi di testa del cantante Ami Shalev che, oltre a vagare per l’intero spazio disponibile tramite crowd-surfing, riesce a suonare un rullante sostenuto dalla folla e a cantare da qualunque posizione. Impossibile non farsi travolgere da questo ciclone musicale e, a suo modo, teatrale: gli israeliani riescono a tirare in mezzo al loro gorgo di follia veramente chiunque, aiutati dalle ritmiche selvagge e dai riff ossessivi di chitarra. Un grande concerto davvero, l’esaltazione massima della pazzia che è insita nel concetto di rock’n’roll.

Dopo uno spettacolo del genere è necessaria una camera di decompressione, rappresentata in questo caso dal declivio posto davanti al palco principale del festival, cioè il San Miguel Stage. Da lì si vede e si sente senza problemi, nonostante la distanza, ciò che accade e che viene suonato. In questo caso qualcosa di veramente notevole, perché ad esibirsi sono The Fall, guidati da sua maestà Mark E. Smith. Un gran bel live il loro, a cavallo tra sonorità new wave ed altre più prettamente rock’n’roll, esemplificate da una cover davvero ben riuscita dell’immortale standard del garage Strychnine; per il resto, un po’ di brani dall’ultima fatica, l’ottimo Your Future Our Clutter e divagazioni varie tra i 26 album precedenti. Sempre con ironia e tanta, tantissima classe. È un peccato perdersi il finale del loro concerto, tanto più perché il motivo che mi porta al Ray-Ban Stage risulta essere alla fine deludente. The XX dimostrano infatti, con un set moscio e sbiadito, di dover ancora molto crescere nel live, specialmente in spazi come quelli di un festival. La loro alchimia elettronica su disco funziona indubbiamente bene; all’aperto, davanti a migliaia di persone, l’alternanza di pieni e vuoti che può rendere magiche le loro canzoni si trasforma invece in qualcosa che non coinvolge, anche per l’atteggiamento distaccato e quasi impaurito della band sul palco. Molto meglio è ciò che mi attende al ritorno al San Miguel, cioè i Superchunk. Il quartetto del North Carolina è tornato lo scorso anno dopo una pausa di circa 8 anni, ma non ha perso un grammo di voglia di suonare e di far divertire il pubblico con i loro pezzi, perfetti esempi del suono anni ’90, che rileggeva Replacements e Hüsker Dü alla luce del grunge. Un’ora tiratissima quella degli americani, capaci di rinnovare il loro status di band di culto ancora una volta, con canzoni come Driveway To Driveway, Learned To Surf, Precision Auto (con Tim Harrington dei Les Savy Fav come ospite), Detroit Has A Skyline, ma soprattutto Slack Motherfucker e Hyper Enough, poste in chiusura a suggellare il vero e proprio trionfo di Mac McCaughan, Laura Ballance e compagni, oltre che di quella parte di anni ’90 che ancora oggi ha molto da dire e da insegnare. Un gruppo a cui c’è davvero poco da insegnare, pur non essendo degli anni ’90, sono i Broken Social Scene. La band di Kevin Drew e Brendan Canning non è mai stata tra i preferiti di chi scrive, superato per esempio da altre superband canadesi, prima tra tutte gli Arcade Fire; con il live del Primavera in parte mi ricredo. I sei o sette o dieci sul palco (tra cui Owen Pallett, la bella e brava Lisa Lobsinger, John McEntire e, per un brano, Scott Kannberg) riescono infatti a creare il giusto mix tra divertimento, emozione e magniloquenza (intesa in senso buono), con canzoni che cambiano forma e si espandono in più direzioni rimanendo sempre e comunque pop e fruibili. Non è una cosa facile e non rimane che restare a seguirli anche sotto la pioggia, ammaliati dalle venature post-rock di 7/4 (Shoreline) o dalle architetture pop dei nuovi brani, come World Sick, Meet Me In The Basement o Texico Bitches. Bravi davvero.

Arriva poi il momento più atteso dell’intera prima giornata, cioè il ritorno dei Pavement. L’inizio è quello che non ci si aspetta (ma probabilmente il più desiderato): dal silenzio si passa a Cut Your Hair, con gli storici coretti dell’intro a evocare anni ed anni di attesa per chi, come il sottoscritto, deve molto a quei suoni, a quell’etica, a quel modo di vedere e vivere la musica. Malkmus e soci non deludono le aspettative, suonando per un’ora e mezza quello che può essere visto come un best of. In molti momenti si rivive quella che è la Storia dell’indie rock, di quella parte di America che negli anni ’90 costruiva qualcosa di grande: Trigger Cut, Kennel District (con Kevin Drew ospite), Silence Kit, Elevate Me Later, Spit On A Stranger e ancora Fight This Generation, The Hexx, Here, Stereo e Range Life sono tuffi in un passato che ha ancora la forza per essere attuale. Il quintetto di Stockton dimostra infatti di essere affiatatissimo e assolutamente in forma in ogni passaggio, come se il tempo si fosse fermato al 1999. L’apice si raggiunge con i bis, tre pezzi che hanno fatto epoca: Gold Soundz, Shady Lane e Stop Breathin’, dilatata e allungata come a non voler finire mai. Finale da lacrime per la prima serata, dunque. Anche la seconda non sarà da meno. (1/3)

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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