Primavera Sound Festival, Barcellona, 26/05/2011.

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Mi allontano galvanizzato, snobbo gli Interpol senza alcun rimpianto e mi dirigo verso il Rayban Stage, dove a breve i redivivi Suicide proporranno per intero il loro primo, seminale album. Ed è qui che la realtà supera anche le migliori aspettative. Martin Rev e Alan Vega sommergono gli spettatori con un muro di suoni sintetici ed urla riverberate che farebbe impallidire qualunque guastatore noise odierno. Mentre la drum machine pompa come una locomotiva impazzita, Rev si accanisce con rabbia sulle tastiere, arrivando a colpire i tasti con pugni e gomiti e ricavando dallo strumento gemiti distorti che certamente non fanno rimpiangere l’assenza di chitarre. Vega, perfetta sintesi tra Iggy Pop e Mu’ammar Gheddafi, si aggira per il palco come una bestia inquieta mentre intona i suoi testi disincantanti e ultra-realisti. La formula del duo suona tutt’oggi come qualcosa di fresco e convincente, rivaleggiando in originalità con le produzioni più recenti. È vero che brani come Ghost Rider o Johnny ripropongono in salsa elettronica stilemi rockabilly (genere di per se obsoleto già nel ’76), ma chi potrebbe negare che questo meta-suono abbia irrimediabilmente influenzato gli Oneida? E come non rimanere basiti di fronte al proto-industrial di Rocket USA, all’incedere ferale di Che o all’agghiacciante psicodramma di Frankie Teardrop? Con le orecchie che ancora ronzano mi concedo una breve pausa, per poi tornare al San Miguel e concludere la serata davanti agli scatenati Flaming Lips. A dirla tutta il pop lisergico propagandato dalla band di Wayne Coyne non ha mai del tutto catturato la mia attenzione, ma bisogna ammettere che dal vivo gli yankees sono in grado di imbastire un’eccellente spettacolo rock. Giungo sul luogo in medias res, e davanti ai miei occhi si presenta lo scenario che segue: il palco ridotto ad uno sgargiante immondezzaio, riempito com’è di schiuma, coriandoli, fili colorati e affollato da decine di cheerleaders. Kliph Scurlock, capelli sugli occhi, procede a testa bassa mentre dagli amplificatori si sprigiona una sinfonia di feedback e pulsazioni elettroniche. Coyne (presumibilmente obnubilato da qualcosa di più forte dell’alcool) non riesce a contenere la sua debordante vitalità: trasmette all’ascoltatore un senso di euforia quasi tangibile, nonostante lo stato di astrazione in cui si trova riduca i tentativi di aizzare il pubblico a dei concitati “Come on, come on, come on!”. Tutto lascia intendere una tragica precarietà, eppure i nostri portano a compimento una performance di tutto rispetto con professionalità impeccabile. Me ne torno a casa pienamente soddisfatto, ma cosciente che il meglio deve ancora venire. (continua nel prossimo numero!)

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