mercoledì, Ottobre 16, 2024

The Drums – Portamento (Moshi Moshi, 2011)

Insieme alla Scandinavia, l’America è la fucina di quella che ormai definiamo a stento come “scena indie”. Quest’ultima, però, a differenza della regione dell’Europa Settentrionale, ha dato vita ad una seconda globalizzazione (o “americanizzazione”) musicale che – scena mainstream permettendo – va a toccare un campo oggigiorno quasi più redditizio di quello relativo alla musica da classifica per antonomasia: la scena musicale underground (parola da prendere con le pinze) ha infatti un suo perché in top10 settoriali e nelle quali i nuovi gruppi si rinnovano (e si avvicendano, come in una gara al più forte) di anno in anno. The Drums, ad esempio, sono uno di questi mattoncini intercambiabili che la scena indie americana (dai presupposti mainstream) ha fortemente voluto dalla sua parte (con la Island Records della Universal Music Group), per poi lasciarli andare – senza troppi complimenti – verso territori londinesi occupati dalla (realmente) autonoma Moshi Moshi Records. Così, dimenticato il primo omonimo album e la hit Let’s Go Surfing – con la quale anche il gruppo di Brooklyn si è prestato alla regola della band misconosciuta la cui canzone più orecchiabile finisce in pasto ai pubblicitari di auto et similia – The Drums (meno un elemento, tale Adam Kessler, il chitarrista) pubblicano un album capace di farli rivivere attraverso la morte. Portamento è un lavoro death-oriented, o per dirla all’italiana “fine-centrico”, dove la fine, rappresenta comunque un nuovo inizio. Si tratta di un progetto grezzo nei suoni e nelle liriche e che, proprio per questo motivo, ha una credibilità maggiore rispetto al suo antesignano, soprattutto quando si tratta di giustificare l’amore del gruppo per le sonorità “late 50’s” di nomi come The Beach Boys o The Shangri-Las. Già il primo singolo, Money, parte senza smentire quanto si è detto, con quello spiazzante “before I die” dal quale si dirama una storia incentrata su una situazione economica e sociale che rispecchia la povertà di arrangiamenti rapsodici, sostituiti invece da parti strumentali quasi amatoriali, tipiche del cantante che “non ha soldi”. E questo piglio amatoriale che imperversa per tutto il disco è forse una delle piacevoli conseguenze della loro rottura con la major di cui sopra, le registrazioni domestiche pagano – come dicevano – in fatto di verosimiglianza: non c’è più quella fastidiosa patina di sovrapproduzione degli inizi (e del precedente album) che avrebbe snaturato pezzi come Searching For Heaven o If He Likes It Let Him Do It (realmente anni ‘80), nati e pensati in viaggi mentali che vanno a ritroso e che perciò guardano agli anni in questione anche nelle loro imperfezioni sonore. Certo, da qui a riproporre originalità e audacia di gruppi come i Devo (una della tante e vaghe “réminiscence nel disco) ce ne vuole, eppure The Drums sono comunque sulla buona strada, e questa volta non avranno nemmeno bisogno di faticare correndo, come facevano nel video del loro primissimo singolo e di I Felt Stupid. Come se la musica fosse una gara.

Sebastiano Piras
Sebastiano Piras
Sebastiano nasce in Germania e sin da piccolo mostra uno sfrenato interesse nei confronti della musica, dal pop soul dei Commodores alla singolarità del Duca Bianco.

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