martedì, Marzo 19, 2024

Gukje Shijang (Ode to My Father) di JK Youn – Berlinale 65 – Panorama special

Più di due decenni orsono, il post-strutturalismo proclamava la morte delle cosiddette “grandi narrazioni”, criticandone le retoriche e stigmatizzandone le semplificazioni populistiche finalizzate alla riconferma delle valorizzazioni ideologiche espressione dei sistemi culturali dominanti. Probabilmente la notizia dell’avvenuta morte non è però mai giunta al regista JK Youn, almeno a giudicare dal nuovo film Gukje Shijang (Ode to My Father) che il quarantacinquenne autore cinematografico sudcoreano – uno tra i registi di maggior successo al botteghino nella storia del cinema patrio- ha presentato nell’ambito della 65. Berlinale, per la sezione Panorama Special.

 

Gukje Shijang ha come personaggio principale Duk-soo, un settantenne proprietario di una merceria sita in un mercato della città di Busan, in Sud Corea. Di questi si narrano per flashback 60 anni di vita, partendo dall’infanzia segnata tragicamente dalla scomparsa del padre e della sorella ai primordi della Guerra di Corea (1950-1953), per arrivare fino alla vecchiaia resa amara dall’ingratitudine mostrata delle nuove generazioni nei confronti dei sacrifici fatti da lui e tanti altri coscritti per riedificare il paese e migliorare il tenore di vita delle proprie famiglie.

Il film, nel suo genere, è un piccolo gioiello. A livello stilistico, il regista contamina con maestria i toni della commedia a quelli del dramma, muovendosi sapientemente tra svariati sottogeneri cinematografici. La fotografia, il montaggio e la colonna sonora sono tecnicamente quasi ineccepibili e uniscono, senza sbavature di sorta, soluzioni da manuale classico a elementi del linguaggio cinematografico tra i più recenti.

Anche la struttura narrativa è costruita solidamente e, combinando diversi registri stilistici, utilizza il topos della commedia di genere del “buon vecchio bisbetico” a mo’ di motore narrativo, come mezzo per introdurre in modo spiazzante l’elemento dell’epos nella trama.

Duk-soo è temuto da tutti per gli improvvisi attacchi d’ira scatenati nella maggior parte dei casi da piccolezze e, di primo acchito, avvertiti come sproporzionati. Quel che tuttavia viene giudicato dalla famiglia, dalla società e, in fondo, dallo spettatore stesso alla stregua di un sintomo di demenza senile e incapacità di adattarsi ai radicali cambiamenti intercorsi nella società sudcoreana coeva, in realtà affonda la sua ragione d’essere nelle tragiche esperienze di vita del protagonista.

Così, ciò che resta per quasi tutti gli altri personaggi del film incomprensibile, si traspone dinanzi agli occhi dello spettatore in filmico e, per ogni inspiegabile sfuriata del vecchio coreano, si avvia un flashback che inscena un momento ‘essenziale’ della storia della Corea Del Sud, focalizzato dal punto di vista del protagonista, puntualmente testimone attivamente partecipe di quegli eventi.

Sullo schermo si avvicendano immagini della guerra contro la Corea Del Nord, scene di vita dell’emigrazione sudcoreana nel ricco occidente, e poi ancora della guerra in Vietnam combattuta dalla Corea Del Sud di fianco alle truppe statunitensi, per giungere, infine, a commoventi inserti sulle politiche di ricostituzione dei nuclei familiari lacerati dalla guerra di Corea, attuate negli anni ottanta con il massivo impiego del mezzo televisivo.

In tutti questi momenti è presente Duk-soo, che agisce coraggiosamente e altruisticamente mosso dall’amore per la propria famiglia e per gli amici.

Inutile dire che tra i presenti in sala le lacrime si alternano alle risa e l’immedesimazione col protagonista è pressoché totale.

Ma se il filmico è di per sé impeccabile e la ricezione che se ne ha è ottima, cos’è a stonare, in questo film?

Pongo una premessa a quanto segue. Quella di Duk-soo è una generazione che si è assunta il peso della ricostruzione postbellica rinunciando alle proprie aspirazioni personali e immolando la propria vita, per dirla con Lacan, nel Nome del Padre senza neanche avere la possibilità tutta simbolica di ucciderlo. È una generazione che si è consumata assumendosi contemporaneamente i ruoli antitetici di padre putativo e figlio orfano vivendo nell’ostinata attesa di un ritorno negato fin dal principio dalla tragedia della guerra.

Se di questa generazione si può avere anche rispetto, nulla si può concedere a un regista come JK Youn il quale ci propone un film che della storia della Corea Del Sud nasconde intenzionalmente tanto le tragedie politiche e sociali causate dai regimi dittatoriali avvicendatisi nel corso dei decenni quanto i tanti che sono morti in nome di una libertà spesasi abbondantemente a parole nei discorsi di un regime padronalmente foraggiato dagli USA.

In conclusione, e lasciando da parte la geopolitica, per quanto ben confezionato, per quanto avvincente, per quanto ben recitato questo film resta una Grande Narrazione delle peggiori, una strategia manipolatoria, una bugia raccontata con malizia.

Qual è il rapporto che intercorre tra memoria collettiva e ricordo individuale? Fino a che punto è possibile distinguere tra retorica della narrazione e patriottismo? A queste domande avremmo volentieri voluto avere almeno un tentativo di risposta. Probabilmente eravamo capitati nella sala sbagliata.

Christian Del Monte
Christian Del Monte
Christian Del Monte (Matera, 1975) è scrittore e fotografo. Sue passioni: cinema, linguaggi visivi, storiografia, caos

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