Franco Micalizzi – Ondanuova: la recensione

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Un album di ricordi, di fotografie, chiuso in un cassetto, che il proprietario decide all’improvviso di aprire e di diffondere, liberando istantanee che vanno dall’infanzia sino ai giorni d’oggi. L’ultimo disco di Franco Micalizzi è qualcosa di molto simile. Il compositore romano, sin dall’emblematico titolo (un’onda, che, per natura, “ritorna” e si riproduce sempre uguale e diversa da se stessa e che, pertanto, è sempre “nuova”), dichiara l’intento non tanto di sintetizzare la sua sterminata carriera (più che cinquantennale) in uno o più generi, tantomeno di contaminarli fra loro, quanto di svelare al pubblico la sua sfaccettata personalità ed il suo vissuto musicale con una sincerità ed onestà intellettuale davvero fuori dal comune. Da sempre influenzato da derive d’oltreoceano, che si manifestarono pienamente negli incalzanti funk che caratterizzavano le sue colonne sonore nei poliziotteschi degli anni ’70, Micalizzi realizza con Ondanuova un atto d’amore in primis per gli Stati Uniti, rivisti alla luce di una tradizione artigianale profondamente italiana (è un complimento), sfiorando, più che abbracciando, i territori e le atmosfere a lui più vicini.

Radici jazz e nere sono ancora vive e ben presenti, eppure cristallizzate in una forma perfetta e rilassata (si veda il riff di Bubble Blues) che fonde rigore stilistico e partecipazione emotiva. Avvalendosi di un impianto orchestrale, in cui convivono distesi tappeti d’archi e una formazione prevalentemente jazzistica, con misurati interventi vocali, le composizioni di Micalizzi si accostano, con divertiti ma rispettosi omaggi, anche ad un assolato Brasile (nelle melodie di Encantado e Poema) e a ritmiche caraibiche e latin-funk (Magico, con un indovinatissimo flauto di Eric Daniel e Por Tudo Por Nada), quando non propriamente lounge.

Gli elementi sulla carta sono tanti e la durata è consistente ma il tutto è disposto con un’organicità tale da non risultare mai invasiva: al contrario, l’ascoltatore viene costantemente cullato in sonorità a lui estremamente familiari, oniriche eppure ben vive, in un marcato realismo, in cui gioca un ruolo da protagonista una registrazione di una limpidezza straordinaria, quasi a voler segnare nettamente la distanza dall’operazione nostalgia. L’intelligenza dell’operazione, infatti, sta nel non fare mai musica di genere o puro revival – che, quello sì, sarebbe risultato un po’ scontato – ma nel piegare i generi ad una propria, rinnovata classicità che, fortunatamente, tiene lontanissima quell’impressione di freddezza che, sulla carta, l’esperimento poteva far presagire.

Su tutto, una sobrietà di stile da vero primo della classe, abile tanto nella direzione quanto nel lasciare spazio a ciascuno dei suoi musicisti, fra i quali, tutti bravissimi, menzioniamo la tromba di Fabrizio Bosso e la batteria del figlio Cristiano. 75 anni e non sentirli. Chapeau.