sabato, Luglio 27, 2024

Xiu Xiu – Always

Che gli Xiu Xiu stiano strutturando da qualche tempo un personale approccio alla forma canzone è qualcosa di appurato e rappresenta, con tutta probabilità, un processo inarrestabile. Nonostante una produzione più abrasiva, la vena pop che caratterizza le composizioni di Always è innegabile e, tutto sommato, equiparabile a quella di Dear God I Hate Myself. La chiamata alle armi Hi, con cui Jamie Stewart raccoglie intorno a sé tutti i disfunzionali di questo mondo, segna la cifra stilistica a cui si allineano anche Beauty Towne, Honey Suckle o Gul Mudin: cassa house, percussioni industriali, potenti giri di basso wave ed elettronica 8 bit. La propensione al patchwork anni ’80 è ancora più evidente in brani come Joey’s Song e Born to Suffer – mostruose caricature electro-pop illuminate da angelici pad di sintetizzatore – che fanno rispettivamente il verso ai Talk Talk (impressionante la somiglianza fra le voci di Stewart e Mark Hollis) e ai New Order. Posto che a livello musicale i numeri per entrare in classifica ci sarebbero tutti, le considerazioni di Jamie continuano a costituire un ostacolo non da poco nel processo di avvicinamento all’ascoltatore medio. Il nostro non ha mai fatto segreto del suo interesse per psicosi assortite e sessualità deviata, tuttavia la brutalità che trasuda dai testi di Always trascende persino le non proprio rassicuranti riflessioni di Dear God I Hate Myself. Chimney’s Afire, il brano che più di ogni altro sembra sottratto alla scaletta del predecessore, si apre con un riferimento al suicidio di un ex membro del gruppo (“you had to dig hard to find the cult of arteries”), e siamo soltanto all’inizio. Discriminazioni razziali e abusi sessuali la fanno da padrone, in una spirale di violenza che coinvolge figlie violentate dai propri padri (“your father was the first man inside of you”), immigrate cinesi sfruttate ed umiliate (“the sheltering hand casts the shadow of cum thrown in the face of you mom”), ragazzini afghani uccisi per divertimento dalle truppe di occupazione americane (“Sgt. Gibbs cut off your finger, Andy Holmes put it in a sock”). Una spirale che raggiunge il culmine nella dinamica servo/padrone di Smear the Queen, resoconto di un gioco erotico degenerato in stupro collettivo (“held his throat ‘till he passed out, count the men inside your mouth, surpised that you could stomach it”). Brano decisamente innodico quest’ultimo, che vede la partecipazione di Carla Bozulich alla voce e che costituisce di conseguenza un botta-e-risposta fra le due anime più tormentate dell’underground statunitense, una sorta di Trottolino Amoroso dududu-dadada per degenerati. Rari e ben piazzati gli episodi in cui la crudezza dei testi è bilanciata da un’idiosincrasia strumentale altrettanto potente: Factory Girl e Black Drum Machine sono brani folk disgregati, segnati da violini e tribalismi caracollanti, tanto da portare alla mente le atmosfere del capolavoro delle Raincoats Odyshape. Il picco dell’intero album è probabilmente rappresentato da due brani consequenziali piazzati a metà scaletta: mentre il terrorismo elettronico di I Luv Abortion esprime tutta la sofferenza che deriva dall’ingresso (o, in questo caso, dal mancato ingresso) nel mondo tramite arpeggiatori impazziti e incursioni di fiati (“a hyena infected with rabies would give birth to you, there are too many important things I can’t be for you, I luv abortion, you are too good for this life”), il piano/voce di The Oldness ben si confà alla descrizione del vano risentimento provato da chi questa vita sta infine per lasciarla (“something wrong will molest you in drug stupor, on onslaught constant and dry”). Due composizioni potenti in cui l’alfa e l’omega della parabola umana vengono passate in rassegna. Com’era facile prevedere, non c’è di che essere allegri.

 

 

 

Federico Fragasso
Federico Fragasso
Federico Fragasso è giornalista free-lance, non-musicista, ascoltatore, spettatore, stratega obliquo, esegeta del rumore bianco

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